Di che cosa è fatto un eroe? E per quali motivi viene definito tale? Oggi, se provate a rivolgere domande del genere a un adolescente, probabilmente vi risponderà che maschera, calzamaglia e mantello identificano a prima vista l’eroe, che è tale in virtù dei suoi superpoteri e della capacità di primeggiare in battaglia. Altrimenti, ma qui l’età si alza, c’è il tipo alla James Bond. Sexy, agile, ricco di gadget tecnologici e al di là del bene e del male.

Ma se c’è una cosa che accomuna quell’adolescente cresciuto a pane e Marvel e i suoi genitori che preferiscono storie più plausibili è l’incapacità di pensare l’eroismo nelle forme del tutto anonime di un pacioso signore dalle guance generose, la sciarpa variopinta e il cappotto blu. Un uomo di legge. Di più: uno che le battaglie non le combatte, ma le scongiura. Inoltre: uno realmente esistito.

Solo l’imperturbabile innocenza di Steven Spielberg, che più invecchia e meno cinico diventa (grazie a Dio), poteva pescare dagli archivi della storia il volto comune dell’eroismo, il volto di James Donovan.

Chi era costui? L’avvocato del diavolo nell’America burrosa e paranoica da Guerra Fredda, incaricato di difendere l’indifendibile, una spia russa catturata sul suolo patrio, Rudolf Abel. A lui il regolare processo per salvare le apparenze e ribadire col diritto il primato di uno Stato democratico. Ma per Donovan quel processo deve essere anche giusto, perché non c’è Stato democratico senza primato del diritto. A conti fatti - e non facendo i conti di apparati, familiari e vicini - salverà la vita di un uomo che, come lui, ha servito la complicatissima causa dell’integrità e che a tempo debito servirà da controparte nello scambio con il pilota dell’aereo-spia U2 Francis Gary Powers e lo studente americano Frederic L. Pryor, caduti nelle mani del blocco comunista (URSS e Germania Est).

Donovan si ritroverà suo malgrado in prima linea nella complicatissima partita diplomatica che si terrà in incognito sul campo losco di una Berlino spaccata in due dal Muro. E avrà la meglio sbertucciando servizi segreti di entrambi i blocchi.

Sull’episodio storico vi rimandiamo alla piacevolissima visione del film, che Spielberg dirige con la solita passione e un’invidiabile leggerezza, abbinata al gradevole understatement dello script dei fratelli Coen. Ricostruzione calligrafica del periodo (fine anni ’50) ma efficace, gran duetto d’attori – con Tom Hanks sempre più credibile erede di Jack Lemmon (raffreddato e con il fazzoletto sempre pronto all’uso ricorda il C.C. Baxter de L’appartamento) e il suo sparring partner, Mark Rylance, capace di imprimere umanità e carattere a un personaggio immobile, atono e di poche pose – e attualità a go go: la Guerra Fredda non è in archivio ma di drammatica attualità, senza contare le similitudini con la Guerra al Terrore, dove questioni di natura giuridica, interessi di Stato, odio identitario e uso della tortura rimandano in fondo alla domanda delle domande che riguarda oggi tutte le democrazie minacciate dal terrorismo: è lecito difendersi con metodi che rischiano di snaturare quel che si difende?

La risposta di Spielberg è, ancora più che in Lincoln, nella Costituzione, ovvero in quella Parola che fonda la convivenza democratica e soprassiede alle dispute. Quella Costituzione che rende eroi chi la difende e la incarna, siano essi capi di Stato o semplici azzeccagarbugli. Lo stile visivo serve allora da grancassa a un concerto di voci dissonanti, misura uno spazio (in Lincoln era soprattutto il Congresso, qui l’aula di un tribunale, un’ambasciata, una stanza degli interrogatori) che esiste solo in virtù della retorica che ospita. Appalta l’immaginario al potere della parola più che alla forza delle armi, illuminando un esercito di negoziatori, diplomatici e pontieri (azzeccatissimo titolo Il ponte delle spie) e relegando sullo sfondo militari e 007. Una sfida che Spielberg risolve anche sul piano iconico, ridicolizzando da un lato l’aereo-spia con i suoi inutili congegni ultra-tecnologici e le potentissime macchine fotografiche a scatto simultaneo, e sottolineando dall’altro l’autentico e inoffensivo uso dell’immagine da parte di un nemico appassionato di pittura, quel Rudolf Abel che si congederà da Donovan regalandogli un ritratto, a memoria del reciproco riconoscimento umano.

Di amici - e nemici - così oggi avremmo bisogno.