Pagare 65 mila dollari per avere buone possibilità di morire nel tentativo di scalare la vetta più alta del mondo è un'esperienza che probabilmente la maggior di parte di noi non si sognerebbe neppure di fare. I soldi sono solo l'ultimo dei problemi.

In effetti c'è un'ascetica che rasenta la follia nell'alpinismo ad altissima quota. A 8000 metri d'altezza volano gli Airbus, non camminano gli uomini. Il nostro corpo a quell'altezza inizia a morire.

Ciononostante nella primavera del 1996, sul Campo Base dell'Everest, erano una ventina le spedizioni commerciali pronte a lanciare la sfida alla montagna. Un affollamento che si sarebbe rivelato esiziale.

Il film di Baltasar Kormakur racconta quel che successe in particolare a un paio di loro, l'Adventure Consultants e la Mountains Madness. Entrambe neozelandesi, la prima guidata dall'esperto scalatore Rob Hall e l'altra dal più spericolato Scott Fischer, erano considerate il top dell'alpinismo a pagamento. Non bastò a domare la furia della montagna.

Senza svelare troppo di una storia che molti di voi probabilmente ricorderanno, Everest è il suo resoconto fedele e abbastanza accurato, un cammino di avvicinamento alla tragedia che galleggia tra l'epica e il privato, la retorica della sofferenza fisica e quella di un dolore più intimo, affidata soprattutto al campo/controcampo delle telefonate tra gli scalatori e i familiari rimasti a casa angosciati.

Due strategie retoriche che Kormakur porta avanti affidandosi soprattutto alla performance dei suoi attori, alcune efficaci (Jason Clarke, Josh Brolin ed Emily Watson) e altre meno (Jake Gyllenhaal e Keira Knightley), mentre riserva per sé l'incombenza di far parlare la montagna e farne un personaggio tra gli altri. Compito portato avanti con mestiere ma senza quell'ispirazione che avrebbero permesso al film di fare un deciso salto di qualità.

Se la scelta di non privilegiare nessuno dei personaggi e di allargare le maglie del racconto si rivela azzeccata perché restituisce allo spettatore un po' di quello smarrimento che si deve provare avventurandosi lassù, l'approccio di Kormakur si rivela soprattutto tecnico, la messa in scena a bassa intensità.

Al filmaker islandese manca il coraggio necessario per assumere un punto di vista sulla vicenda che sfugga alla nuda concatenazione dei fatti.

Eppure in uno dei testi alla base del film, Aria sottile del sopravvissuto Jon Krakauer, spunti e questioni aperte non mancavano: l'eccessivo sfruttamento commerciale dell'Everest, il fanatismo delle sfide ad alta quota, il movente ascetico di un'esperienza fisica estrema, i vari sotto-testi allegorici sulle ambizioni, le miserie, il coraggio e l'incoscienza di ogni essere umano. Tracce possibili che Kormakur indica senza inseguirne nessuna.

Ci sarebbero voluti la sensibilità e lo spirito di un Herzog, il fuoco vivo e la pazzia. Avremmo avuto l'Everest.

A quello di Kormakur manca invece l'articolo determinativo. Non è un difetto da poco.