Tra le tante malefatte del ‘900, tra i troppi genocidi, quello dei nomadi jenisch è probabilmente il meno conosciuto. Eppure è ad un passo da noi che si è consumato. Svizzera, 1926-1986. Sarà anche perché gli svizzeri, a differenza dei tedeschi e dei popoli dell’est, sono abituati a fare le cose con estrema discrezione, senza esibizioni di crudeltà, semmai con scientifico, asettico, decoro.

Succedeva questo nella terra degli orologi a cucù: per estirpare la tara del nomadismo – correlata giocoforza a quella della furfanteria e dell’incivile strafottenza delle regole – venne messo su, attraverso un’associazione filantropica denominata Pro Juventute, un gigantesco progetto di eugenetica attraverso cui i bambini jenisch, sottratti alle loro famiglie d’origine, venivano rinchiusi in orfanotrofi, ospedali e altri luoghi di reclusione per essere sottoposti a una serie di esperimenti, sterilizzazione compresa.

La Svizzera, che solo in anni recenti ha fatto pubblica ammenda senza peraltro risarcire o condannare nessuno, è stato per quarant’anni il laboratorio di una riprogrammazione etnica con pochi precedenti nella storia. E se non fosse per le agghiaccianti statistiche che ogni tanto saltano fuori dai paesi “iper-civilizzati” come quella che di recente ha mostrato numeri allarmanti sui bambini down, letteralmente “spariti” da alcuni Stati dell’Europa del Nord (Islanda in primis), si sarebbe tentati di dire che questo è il passato, condanniamo e andiamo avanti. Invece il tema dell’eugenetica, l’ossessione della manipolazione umana in vista di magnifiche sorti progressive è più attuale che mai.

Un piccolo passo verso l’emergenza – nel senso di riemergere del passato tra le crepe del presente - che manca a Dove cadono le ombre, per altri versi nobile opera prima di Valentina Pedicini (in gara alle Giornate degli Autori) che sulla persecuzione degli jenisch si accontenta di un lavoro testimoniale per quanto non immediato né canonico.

Sulla suggestione forse della poesia della grande Mariella Mehr, jenisch ella stessa e preziosa, autorevole traccia documentale di un orrore consumato sulla propria pelle (Dove non c’è luogo/si nutre la parola della montagna non rimossa./Disperata frase per frase, la mia Babilonia./Solo la ferita da aculeo tace.), la Pedicini ha realizzato un film di fantasmi, sommesso e onirico, un film che non si limita a fare memoria ma che è fatto di  memoria. Dei suoi meccanismi di riemersione e rimozione che si servono di movimenti sincronici di eventi diacronici, di carezze e cazzotti tra passato e presente, compresenti e sempre confliggenti.

Un muro contro muro dialettico, tradotto nello scontro mentale e fisico tra una sopravvissuta e una sopravvivente, tra la jenisch Anna, e la vecchia carnefice Gertrud. La prima, infermiera in un vecchio istituto per anziani, che una volta era stato l’orfanotrofio dove aveva vissuta da bambina; là dove incuteva terrore la seconda, la dottoressa che ora, invecchiata, ricompare come paziente. I ruoli che si invertono, l’una fa all’altra quello che l’altra le aveva fatto a sua volta e nel mezzo giochetti, meschinità, rivendicazioni, questioni non risolte.

Al netto di una certa impostazione teatrale, le due interpreti, Federica Rosellini ed Elena Ciotta, sono bravissime e l’operazione rivela una grande cura formale e un’algida architettura emotiva, un procede per ripetizioni a bassa intensità, (primi) piani severi e sentimenti strozzati come groppi in gola. La scena della memoria non può che essere la stessa dell’accaduto, il luogo dove i ricordi sono eventi intrappolati negli scantinati dell’anima. Immagini vuote, innocue, finché il lucchetto è chiuso. Riportami la notte, l’occhio del giorno mi strappa la ragione, scriveva la poetessa.

Questo scandaglio della memoria, che è come un fiammifero gettato nella notte della coscienza europea, condotto con i mezzi di un dramma psicologico al femminile, rivela tanti pregi e altrettanti limiti di un approccio non convenzionale né banalmente di denuncia, evocativo ma non sempre chiarissimo, originale ma non necessariamente efficace, raffinato e insieme pericolosamente di nicchia. Tanto focalizzato sulla battaglia (l’incontro/scontro tra le sue due primedonne) da perdere di vista la guerra (lo sterminio Jenisch).

Un racconto che mira più alla riconciliazione che alla denuncia, serio invece che indignato, che rischia però di non mettere doverosamente a fuoco il chi, il dove, il quando. E di non riuscire a convertire i ricordi dei singoli nel memoriale di un popolo. Con le ombre che cadono sempre da un'altra parte.