“Non mi aspettavo di essere qui, per me è una cosa sconvolgente. Ero ad un punto della mia carriera in cui mi sentivo come un cantante ancora con tanta voce ma in attesa che qualcuno gli scrivesse la canzone giusta. E poi è arrivata questa storia, un regalo dal cielo”. Alex Infascelli è a Wroclaw, in Polonia, nella capitale della cultura europea, dove domani sera, sabato 10 dicembre, saranno assegnati i 29° EFA – European Film Awards. Il regista è in nomination (insieme all’altro italiano Fuocoammare di Gianfranco Rosi), con il doc S is for Stanley, che racconta a storia di Emilio D'Alessandro, autista personale di Stanley Kubrick. Un’amicizia che ha attraversato trent'anni di vita, costruito meticolosamente quattro capolavori della storia del cinema e unito due persone, apparentemente opposte, che hanno trovato lontano da casa il proprio compagno di viaggio ideale.

Già presentato alla Festa di Roma 2015 e in molti altri festival in giro per il mondo, premiato con il David di Donatello, il film ha trovato un distributore americano, territorio dove a breve avrà un’uscita a Chicago, New York e Los Angeles, oltre ai già confermati Giappone, Hong Kong, Nuova Zelanda e Canada. “Il resto del mondo – spiega Infascelli – in un certo senso è laico su Kubrick, figura già mitizzata e iconica come può esserlo quella di John Lennon. In Europa non è così, è come se fosse ancora vivo”. Anche se è proprio l’Europa ad averlo selezionato per la cinquina finale degli Oscar continentali: “E’ una cosa davvero incredibile, soprattutto considerando il fatto che se ho iniziato a fare cinema gran parte del merito si deve a Wim Wenders (presidente dell’European Film Academy, ndr)”.

Ma la corsa di S is for Stanley non sembra interrompersi qui: “In origine non sapevo se dal libro di Filippo Ulivieri (Stanley Kubrick e Me, ndr) sarebbe stato meglio trarre un documentario o un film. Visto che però Emilio D’Alessandro era ed è tuttora in vita, ho pensato sarebbe stato più giusto approcciarmi alla storia in maniera documentaristica”, spiega ancora Infascelli, che rivela: “Ora stiamo però sviluppando un film di finzione e siamo a tanto così dalla firma per dare il via in termini pratici al progetto. Il mio sogno sarebbe quello di vedere Paul Giamatti nel ruolo di Stanley”.

S is for Stanley

“Stanley”, non Kubrick, “perché ormai da tre anni a questa parte è come se Kubrick non esistesse più, per me è Stanley. Visto che ho anche scoperto che non amava farsi chiamare Kubrick da nessuno, si faceva chiamare Uncle Stanley…”. Uno zio che ha fatto la storia del cinema, e che ora potrebbe regalare ad Infascelli anche la consacrazione internazionale: “Ogni suo film è un’enciclopedia del cinema. Ma la cosa davvero singolare è data dall’impossibilità di etichettarlo per uno stile, visto che ha fatto tutti film diversi uno con l’altro. E quando l'occhio non è ancora abituato non vede le sue caratteristiche, le sue simmetrie, le sue ossessioni. Non è un regista facile da amare come può essere per me David Lynch, per il quale ho nutrito da subito un amore viscerale. Nei confronti di Kubrick c’è un'infatuazione cerebrale”.

In gara con 21 x New York di Pjotr Stasik, A Family Affair di Tom Fassaert, Gaga di Tomer Heymann, The Land of the Enlightened di Pieter-Jan De Pue, l’opera di Alex Infascelli deve vedersela, come detto, soprattutto con Fuocoammare di Gianfranco Rosi, già inserito nella shortlist dei documentari in lizza per la cinquina Oscar nonché in attesa di sapere se candidato anche come miglior film straniero dall’Academy: “E’ un momento particolare per il tipo di cinema che fa Rosi. Il nostro è più considerabile un documentario classico, ma quello che sta accadendo è che ancora non sappiamo come confrontarci con determinate opere, è in atto una trasformazione. E’ il cinema stesso che deve decidere dove andare. Sta accadendo quello che avvenne per il romanzo: tanto quanto la letteratura ha dovuto fare i conti con il senso del romanzo, lo stesso sta accadendo con il cinema, da un certo punto di vista fermo da 120 anni. Sentiamo il vincolo del rettangolo, quello della durata, quello del genere e via dicendo”, riflette Infascelli, che aggiunge: “Forse proprio con l'arrivo di internet, per il fatto che ognuno può fare il reporter, il cinema si è dovuto confrontare con questo. Ma è meraviglioso che ognuno può avere accesso a questa forma d'arte. Non esiste più il concetto di cinema elitario, ora è un tutti contro tutti. E anche per questo, forse, la fortuna sempre maggiore della serialità è data da questo scardinamento della struttura temporale del cinema: i film ti costringono ad una crasi, ad una sintesi estrema, le serie televisive invece ti permettono di aggiungere, esplorare, di approfondire una narrazione verticale altrimenti impensabile. E da questo punto di vista, The Young Pope di Sorrentino è un ponte che ci permetterà di trovare ulteriori, nuove vie”.