Il primo weekend del festival di Berlino 2017 è quello che porta il concorso nel vivo, a contatto con i primi nomi che potrebbero puntare a qualche premio portando l’attenzione su film di cinematografie praticamente sconosciute in Europa.

Dal Senegal per esempio arriva Félicité (✶✶½): diretto da Alain Gomis, autore franco-africano, il film racconta della donna che dà il titolo al film, una cantante di blues locale la cui vita va in crisi quando il figlio subisce un incidente che rischia di ucciderlo. Ma dalla crisi può nascere anche la possibilità di trovare una nuova vita: uno scorcio di neo-realismo africano in cui Gomis apre interessanti squarci stilistici, attimi di contemplazione o strappi alla fluidità del racconto. Immagini potenti e musiche forti (The Kasaï Allstars) di cui però Gomis non sa bene cosa fare, a cui non riesce a dare una forma comunicativa e cinematografica compiuta. Véro Tshanda Beya però ha il carisma per portare il film sulle sue spalle.

L’Austria invece porta un film decisamente più convenzionale come Wild Mouse (✶✶), una commedia di “ri-matrimonio” in cui le bugie di un critico appena licenziato alla moglie causeranno una serie di vendette e incomprensioni sulla carta esilaranti: ma il regista Josef Hader, anche protagonista del film, tenta la carta Toni Erdmann cercando di inserire situazioni bizzarre o stranianti all’interno di un meccanismo da commedia da prime time televisivo. Purtroppo, oltre alla sostanza di una storia che non ha molto da dire, ad Hader mancano talento comico e vera cattiveria per andare oltre il grazioso sorrisino.

Per chiudere il weekend berlinese, la Polonia ha portato i primi fischi di questa Berlinale: Spoor (✶½) è il nuovo film di Agnieszka Holland, sorta di thriller ecologista in cui un’insegnante in pensione, animalista radicale e appassionata di oroscopi si trova nel mezzo di una serie di omicidi che hanno a che fare con gli animali del bosco in cui vive. Sorta di Miss Marple dei boschi con plot twist finale, il film è incredibilmente approssimativo e superficiale nella scrittura, strutturato come un brutto pilota televisivo - pratica che sembra aver sporcato l’occhio della regista, dopo anni di seriali tra Europa e USA - e diretto sciattamente (un genio dell’informatica che per fare una cosa semplice batte i tasti a caso sulla tastiera è sempre un brutto segno). Per non dire di un finale in cui emerge un discorso ideologico piuttosto inaccettabile.

I primi giorni del Festival sembrano confermare le previsioni di un’edizione sottotono. Ma spesso il meglio arriva sulla distanza.