Non è più un enfant prodige né un regista di culto senza successo (ogni riferimento a Scott Pilgrim è puramente voluto). Edgar Wright ha definitivamente coperto l’ultimo tratto di strada che separa di solito una carriera autoriale da una autorevole, per capirci un Rodriguez da un Tarantino (senza offesa per nessuno), piazzando al sesto tentativo il film che mette d’accordo tutti: Baby Driver – Il genio della fuga.

Un omaggio dichiarato a Driver – L’imprendibile di Walter Hill (“Un capolavoro che non dimenticherò mai”, lo definisce Wright), un racconto di maturazione che danza con il film di rapina e con il musical, con la commedia e con il dramma, un intelligente mash-up di generi e motivi, di attori emergenti (Ansel Elgort) e di quelli premi Oscar (Kevin Spacey e Jamie Fox), un’operazione singolare e insieme mainstream, riconoscibilissima per poetica e godibilissima per il grande pubblico, per la gioia della Sony che, a differenza della Marvel (lo sceneggiatore e regista aveva abbandonato la lavorazione di Ant-Man per divergenze creative con la produzione), ha creduto in lui, forte anche di favorevolissimi test screening. Risultato? Quasi 200 milioni di dollari incassati worldwide a fronte dei 34 di budget e non è finita qui: Baby Driver uscirà in Italia (con Warner) il prossimo 7 settembre.

Il protagonista, Baby, è un giovane pilota che lavora con bande di rapinatori - il "mago della fuga" del sottotitolo italiano - per ripagare un debito contratto con un boss. Le sue passioni sono la musica - al ritmo della quale sterza, gira, frena, spinge il piede sull'acceleratore - e una ragazza di nome Debora, che lo porterà a ribellarsi al suo destino criminale.

“A differenza di altri miei lavori questo è un coming-of-age all’inverso: qui abbiamo un criminale che ambisce a tornare una persona normale”, spiega il regista britannico, che abbiamo incontrato al De Russie di Roma, in occasione della tappa promozionale in Italia. “E’ anche uno dei miei film più morali: a differenza dei produttori, che volevano un finale da gangster-movie anni ’30, io preferivo che il protagonista fosse un tipo responsabile e che pagasse per i suoi errori”.

Gli errori servono a non sbagliare di nuovo: “Dopo cinque film ho finalmente trovato la quadra tra le mie idiosincrasie e qualcosa che piacesse al pubblico. E’ il mio progetto più mainstream ma è anche personale”, dichiara orgoglioso il regista, che pure qualche anno fa si era scottato al suo primo ingaggio da parte di una major: “Con la Marvel è andata così – ricorda -: io avevo una sceneggiatura di Ant-Man che loro non volevano farmi dirigere. Ho deciso di non accettare. Nessun rimpianto, a parte il tempo sprecato”.

Il tempo è una delle ossessioni di Wright: “Ne ho bisogno tantissimo, ci metto anni tra un film e l’altro perché io prima devo scriverli. E mi piace ogni volta cambiare spartito: abbiamo un tempo limitato, perciò ogni volta mi cimento con un genere diverso”.

Il tempo è tutto anche per Baby, che vive al ritmo della musica che passa nei suoi auricolari: “Prima di mettermi a scrivere – confessa il regista – ho scelto i dieci brani che avrei usato e su quelli ho costruito le scene. Attori, coreografi e stunt hanno lavorato sul set con la stessa musica che sarebbe stata poi utilizzata nell’editing finale”.

E sempre a proposito di tempo, il futuro di Wright è ancora italiano: il regista è in partenza per Venezia Lido dove, dal 30 agosto, farà parte della giuria che assegnerà il Leone d’Oro: “E’ la seconda volta per me dopo l’esperienza al Sundance. Mi sono ripromesso di essere obiettivo e di non farmi condizionare dai miei gusti personali. Perché ho accettato? Per avere la possibilità di vedere film che, normalmente, non andrei a vedere e non poteri vedere. A Los Angeles non arriva molto cinema straniero”.