Toro Scatenato film su un mito nel mito, ha suscitato in Italia molti entusiasmi ma anche molte incomprensioni. Proprio qui, laddove in teoria dovremmo meglio  comprendere l’“italiano” Scorsese, questi rischia di restar vittima d'una serie di equivoci. Scorsese, anche adesso che è un regista noto in tutto il mondo, resta pur sempre un fenomeno "etnico". Nel senso che la parola assume negli Stati Uniti, laddove essa intende far risalire esplicitamente la cultura di una persona e di un gruppo al ceppo nazionale da cui quegli deriva.

È un termine che rischia di diventar rapidamente retorico e convenzionale, come lo è ormai da anni l'espressione “Melting Pot”, usata un tempo orgogliosamente per rivendicare al "paese di Dio" la capacità e la qualità d'essere appunto un "recipiente di mescolanze" razziali, un gran calderone in cui immigrati di decine di nazioni, lingue e tradizioni diverse venivano risucchiati e risputati fuori, poche decine d'anni dopo, perfettamente integrati alla cultura nazionale, pronti a parlare inglese con accento americano, a fare il tifo per il "baseball", la gomma da masticare, la doccia fredda (la doccia è "americana", il bagno "inglese", come è noto... ), la Ford modello "T" e la fiducia nelle istituzioni ribadita ogni cinque minuti dall'uso di un intercalare che i romanzi hanno reso celebre anche in Italia, già tanti anni fa ("...Siamo in un paese libero, no?").

Il recupero delle tradizioni "etniche" credo sia, in qualche modo relativamente recente in un paese in cui immigrati e figli di immigrati cercavano prima di tutto di sembrare il più americani possibili, proprio per venire accetta ti dagli 'altri' in modo definitivo e totale.

A questo punto è proprio la terza generazione – i figli dei figli, totalmente integrati linguisticamente, culturalmente, psicologicamente eppure sensibili, soprattutto nelle grandi città, ad un certo sapore "etnico" alla cui ombra sono stati allevati – che cercano, a modo loro, affettuosi e ironici, di risalire alle origini. Di ricomporre le ombre di una infanzia misteriosamente condizionata (se ne accorgono da adulti, andando all'Università, leggendo, studiando) dalla lontana "cultura" dei padri sviluppatasi, a sua volta, fra le righe di quella, totalmente esoterica eppure così famigliare, dei nonni.

I nonni che parlavano male o punto l'inglese, che usavano una lingua sostanzialmente misteriosa (quasi sempre un ispido, solitario dialetto minore, paesano) che venivano da un altro-mondo, non soltanto più povero ma più rudimentale, più antico, più sfatto, più intransigente. Un mondo che avevano fuggito e da cui erano stati, in certo modo, "espulsi"; sicché la difficoltà di comunicarne i lineamenti ai figli ed ancor più ai nipoti s'era poi ulteriormente accresciuta di imbarazzo e di impacci molteplici.

Mi par questo, riassunto con estrema rozzezza, quel che credo debba essere stato cammino medio della comunicazione “etnica” fra generazioni d'emigranti europei (qui ci riguardano particolarmente gli italiani, e più esattamente gli italiani meridionali, che furono la larghissima maggioranza degli emigrati negli Stati Uniti).

Riflesso, ormai da decenni, in una quantità immensa di testimonianze, libri, saggi, ricordi, racconti, ricerche (io appartengo a una generazione che ha fatto a tempo, ad esempio, durante la guerra, ad essere ancora misteriosamente contagiata da libri che nessuno ricorda più adesso, e che apparvero allora in Italia come frammenti minuscoli di una misteriosa cometa “americana” nel cielo delle nostre letture: Olive sull'albero di mele di Pietro Di Donato, Il cammino nella polvere e Aspettiamo primavera, Bandini, di John Fante, eccetera).

Ecco dunque che l'americanissimo Scorsese compie il suo cammino nel più americano dei cinema. E ci lascia, fra l'altro, frammenti, appunto molto tipici di film americano di varia natura: grazie a Roger Corman anche l'immancabile “retro” in stile gangster-depressione: America 1929: sterminateli senza pietà, oppure Alice non abita più qui, ritratto femminile a tutto tondo, tipico della novellistica americana “inquieta” e volutamente “romanzesca”.

Ma dopo il clamoroso Taxi Driver, fra l'un passo e l'altro, sino a New York, New York, estremo omaggio figurativo e tematico all'America vista attraverso il cinema americano, ecco far capolino, proprio nei momenti iniziali della carriera, prima Chi sta bussando alla mia porta? e poi Mean Streets, ove balza fuori tutto il passato “terza generazionale” di Scorsese: l'America composta da una Little Italy senza fine, bar, chiese, corse notturne in auto, gli amici con cui parla da sempre l'inglese sfatto e aggressivo della New York popolana, i vecchi che, a momenti, improvvisano frasi nel loro grasso italiano meridionale, sicilianizzante... un mondo altrettanto consacrato dalla tradizione ma di rado esplorato dal cinema con la stessa intensità autobiografica…

Un mondo che ritrova ora in Toro scatenato la sua promozione ufficiale, il grande “budget”, i grandi incassi, il successo internazionale, la presenza stessa di Robert De Niro a ribadire la “italianità”-newyorkese del racconto. In certo senso il massimo omaggio che il regista potesse offrire al suo proprio passato di ragazzino newyorkese di famiglia modesta, cresciuto, come egli stesso ha avuto occasione di dire, “vedendo film degli anni '40 ambientati a New York e girati a Hollywood, che gli sembravano molto più reali delle autentiche strade newyorkesi entro cui lui si muoveva”.

Qui Scorsese ha lavorato, come si diceva all'inizio, su un materiale doppiamente mitologico: un famoso pugile americano degli anni ‘40, un italo-americano, appunto, un esemplare rabbioso della cultura “etnica” di cui lui ha goduto gli spiccioli, guardando ai genitori, ai nonni, con l'occhio curioso, intenerito e beffardo, di chi sfoglia un album di ritratti di famiglia, visti da sempre, sempre dimenticati.

Martin Scorsese (credits webphoto)
Martin Scorsese (credits webphoto)

Martin Scorsese (Webphoto)

Se non si capisce questo, si rischia di prendere Toro scatenato per quel che non è o è soltanto in parte: il ritratto di un pugile famoso, nativo del Bronx, ovviamente italo-americano, Jake La Motta, verbigrazia, rimasto famoso per l'energia selvaggia di picchiatore, le molte vittorie, le sconfitte a volte arrangiate dall'organizzazione, la adolescenza irregolare, i molti matrimoni la capacità di picchiare sul ring e fuori del ring con la furia maniacale di un killer, diventa nelle mani di Scorsese, che pure rispetta, mi pare, il tessuto delle memorie di La Motta, l'estremo grimaldello per forzare i “ricordi” del “gruppo” (non certo i suoi, o della sua famiglia, ma in senso più largo di una comunità che poteva riprovare La Motta uomo, ma che alla lunga si ritrovava in La Motta pugile, in La Motta uomo pubblico, così come in Rocky Graziano o in Joe Di Maggio, italo-americani anch’essi, che erano fra i primi negli sport più popolari, più “americani”...).

Ecco dunque un film che si presenta come una sorta di documentario, di cartella clinica, di fogli di diario (la parte “pugilistica” è minoritaria rispetto al ritratto a tutto tondo del personaggio; l'omaggio al cinema d'epoca è più nello splendido bianco e nero di Michael Chapman, negli arredi, nei vestiti, negli atteggiamenti, nel sapore impalpabile, che nei frammenti veri e propri di boxe; abbastanza numerosi del resto, visto che sono ricordati gli incontri di La Motta con Robinson, con Janiro, con Fox, con Cerdan, con Dathuille).

Presumibilmente ineccepibile come biografia lo stesso La Motta sembra esserne soddisfatto, si veda l’intervista di Alberto Salani, apparsa sul numero di "Epoca" del 14 marzo di quest'anno, in cui l'ex-pugile ha parole di elogio per De Niro, dice che il ritratto che si fa di lui è veritiero, trova persino che l'attore abbia doti reali di boxeur – Toro scatenato è soprattutto decisivo come omaggio di odio-amore “etnico” (insisto) di Scorsese ad un frammento del passato che è stato "anche" il suo passato, in certo modo (Scorsese è nato nel 1942, quando La Motta sconfisse Cerdan aveva 7 anni, e ne aveva 9 quando questi perse con Robinson; erano gli anni in cui il piccolo Martin frequentava la parrocchia del suo quartiere di italo-americani poveri, e pensava di farsi prete...).

In questo senso il ritratto del protagonista, della sua ferocia di maschio picchiatore (picchiatore di pugili, picchiatore di gente fuori del ring, picchiatore di mogli, picchiatori di tutti, imbevuto dell'idea di essere un “uomo” e perciò forte, spietato, possessivo, geloso, autorizzato a far tutto quello che gli riesce di fare) è la prima preoccupazione di Scorsese.

E si direbbe che sia un obbiettivo pienamente raggiunto: De Niro-La Motta – una interpretazione eccezionale, forse l'unica di questo attore cupamente realistico e spesso manierato che mi abbia totalmente convinto: alla fine del film è ingrassato di venti chili per restituire il fisico sfatto di La Motta che ha ormai abbandonato il pugilato, ogni suo gesto esprime al tempo stesso la sfiducia in sé ed una superstite, sbrindellata autosufficienza – resta un piccolo monumento non soltanto di un certo modo di far cinema, ma di un certo modo di concepire il cinema, cosa che spesso riesce a Scorsese, come un meccanismo di continua, intricata riflessione su se stesso e sulle proprie radici. Di cineasta, prima che di americano, si badi.