Partiamo dal titolo di questa rubrica, che prende avvio con questo numero. Che cos’è una conversazione critica? Se la critica è un’arte, al pari delle altre arti può dispiegarsi in forme diverse. E secondo modelli differenti. Tra i più importanti abbiamo il modello “dialogico”, in cui la critica tende a ricostruire il senso dell’opera e a determinarne la sua comprensione.

Poi c’è un modello di “sperimentazione” critica, che presuppone un movimento centrifugo rispetto all’opera, dove quest’ultima diventa occasione per liberare “linee di fuga” imprevedibili. Nel primo caso, l’unità dell’opera viene costruita dall’interpretazione, nel secondo caso viene dissolta dalla sperimentazione. In una prospettiva filosofica, il dialogo è appannaggio dell’ermeneutica (Gadamer e Ricoeur), la sperimentazione del post-strutturalismo francese (Deleuze e Derrida).

Ma la critica non è solo atto dialogico o processo sperimentale è anche pratica conversazionale. Conversare significa costruire una zona aperta e non prevedibile, una zona-tra l’opera e il critico. La conversazione non è animata né da orientamenti semantici determinati né da temi predefiniti come i dialoghi (vedi Platone), ma solo dalla naturale sintonia e simpatia che lega i conversatori, e presuppone parità di ruoli e reciprocità dei percorsi.

In una conversazione, il critico non solo guarda l’opera ma è da questa riguardato. L’opera ci riguarda sempre. E questo lo sperimentiamo conversandoci. La critica nel suo aspetto conversazionale è un atto etico, in cui la posta in gioco è la trasformazione del critico stesso e con lui dello spettatore di cui è un mediatore. Andare al cinema è qualcosa che riguarda fortemente la vita di noi spettatori. Il critico, facendo di questo il gesto iniziale di una relazione con il film che si prolunga in parola, ci fa vedere con la sua mediazione (il critico è un “traghettatore” ci dice Serge Daney) la possibilità per noi spettatori di comprendere meglio noi stessi, e con ciò stesso di poter cambiare.

©Brock Wegner

Se un’opera ci piace è perché è stata capace di dire qualcosa riguardo alla nostra vita e al nostro tempo che non eravamo stati in grado di capire e tanto meno di esprimere. E vedere questo rappresentato su uno schermo significa determinare le condizioni per avviare un processo – anche solo potenziale – di comprensione e cambiamento di sé. È quello che il filosofo americano Stanley Cavell ha chiamato – sulla scia di Emerson – “perfezionismo morale”, cioè la possibilità che ognuno di noi ha di migliorare sé stesso a partire dalle relazioni e conversazioni che intesse, non solo con le persone che incontra, ma anche con i libri che legge, i film che vede, e via dicendo.

La critica porta in forma “prosaica” ed esplicita ciò che nell’opera è implicito e “poetico” (per usare un lessico benjaminiano). E con questo porta a coscienza dello spettatore comune - tale è lo spettatore cinematografico - ciò di cui l’opera parla, determinando non solo l’orientamento del gusto, ma quel processo decisivo attraverso cui i singoli individui possono avviare, a partire dalla loro esperienza di spettatori, il loro proprio cambiamento. La critica non ha dunque solo un valore etico ma anche pedagogico.

André Bazin
André Bazin

André Bazin

Due grandi modelli della conversazione critica cinematografica sono André Bazin e James Agee, per cui leggerli significa comprendere qualcosa che – attraverso il cinema – riguarda la vita e la forma di un suo possibile cambiamento. Questa rubrica nasce dunque animata dall’esigenza di conversare con opere (film, libri, spettacoli teatrali) del presente, ma anche del passato che riguardano il presente, con idee ed eventi che segnano la vita culturale. Che non è solo segnata dalla forma “maggioritaria” di ciò che accade, ma anche da quella “minoritaria” di ciò che potrebbe accadere, basta anche solo poterlo immaginare.

Prendiamo un esempio della recente serialità televisiva (di cui sono spettatore solo occasionale), Dieci capodanni. La serie ha avuto una certa fortuna, se ne è colta la qualità, ma senza evidenziarne la portata radicalmente innovativa per il racconto dell’amore nel suo rapporto con il tempo. Cioè, qualcosa che definisce la condizione umana in genere. Il film è costruito sull’incrocio tra il ciclo del tempo, segnato dal ritorno dei capodanni, e un tempo lineare che attraversa tale ripetersi. Vediamo una linea del tempo in cui ciò che ritorna torna mutato. E di tale cambiamento bisogna tenerne conto. La vita non è altro che la forma in cui accogliamo il cambiamento di ciò che torna.

All’interno di tale incrocio di tempi si misura anche l’uso del piano sequenza, dove il movimento della macchina da presa ci restituisce la continuità del tempo dell’azione (come nella scena della stanza d’albergo nell’ultimo episodio), che si intreccia con gli stacchi che ritmano il ritorno ciclico dei capodanni. La forza di Dieci capodanni sta nel presentarci un destino possibile dell’amore oggi, lontano sia dall’illusorietà della commedia romantica che dal pressoché esclusivo racconto tragico-melodrammatico dell’amore che viene fatto dai media (“amore criminale”). Dieci capodanni mette in immagine una possibilità felice di abitare il tempo e i nostri sentimenti, riscoprendo la condizione allo stesso tempo incerta e gioiosa, ripetitiva e nuova, dolorosa e felice, della nostra umanità.