In fondo ci vide lungo, Kirstie Alley, quando nel 2005 si lanciò in un’operazione azzardata come Fat Actress, una sitcom che, nel momento in cui quel genere stava perdendo centralità nella televisione americana, ammiccava all’emergente universo del reality. In quello show, Alley metteva in scena se stessa: una star di mezz’età (in un periodo in cui avere cinquantaquattro anni, a Hollywood, significava erigere una pietra tombale su una carriera) il cui aumento di peso era diventato argomento dei principali tabloid.

Alley era effettivamente ingrassata e, attraverso il suo corpo, decise di raccontare l’ossessione per la magrezza in un paese pieno di obesi, la crudeltà di un sistema industriale, lo spaesamento di un’attrice di cui i produttori non sanno che farsene. Alley cavalcò l’autofiction, magari un po’ rozza, e coinvolse i suoi amici come guest star (tra gli altri John Travolta, Rhea Perlman, Melissa Gilbert). Però la critica non fu benevola e la sitcom chiuse dopo sette episodi.

Sembra solo una parentesi in una carriera lunga oltre quarant’anni (del 1978 l’esordio in tv nella serie Quark, al cinema con Star Trek II – L’ira di Khan nel 1982), ma definisce bene l’autonomia e l’intelligenza di una commediante come Kirstie Alley, morta ieri, 5 dicembre, a causa di un cancro scoperto di recente.

Il pubblico, in particolare quello americano, la ricorda soprattutto per Cin Cin (in originale Cheers, considerato uno dei migliori programmi di sempre), in cui interpretava la nevrotica Rebecca, prima cameriera e poi direttrice del bar che fa da scenario alla storia.

Kirstie Alley in Fat Actress © Capital Pictures (Webphoto)
Kirstie Alley in Fat Actress © Capital Pictures (Webphoto)

 

Kirstie Alley in Fact Actress © Capital Pictures (Webphoto)

Quello di tutto il mondo, invece, lo raggiunge grazie alla vispa mamma di Senti chi parla, fortunata trilogia calante (il primo film del 1989 sfiora i 300 milioni globali, il sequel dell’anno dopo ne porta a casa 120, il terzo si ferma a 10) che intercetta tutte le età, dai genitori ai bambini, e la fissa nell’immaginario collettivo accanto a Travolta, partner ideale e in un certo senso davvero affine a lei per come si è relazionato con la persistenza di un’iconografia sexy e la progressiva rivelazione di un corpo non più attraente.

E in un panorama di attrici bellissime, sempre perfette, illuminate dal bagliore di un divismo che non ne scalfisce l’estetica, Kirstie Alley ha anticipato il discorso sulla convivenza con le imperfezioni, sulla faticosa accettazione di una fisicità che non corrisponde al nostro desiderio, sul disallineamento rispetto allo sguardo altrui.

Come si vede nella sua splendida performance in Harry a pezzi, forse il film più prestigioso del percorso di Alley (all’attivo anche il cult family Matrimonio a 4 mani e Villaggio dei dannati di John Carpenter), in cui è la moglie di Woody Allen, psicanalista furibonda e distrutta perché il marito la tradisce con una paziente più giovane (“Io curo questa donna, lei esce di qui, vi vedete e tu ci vai a letto?”), capace di passare in un secondo dalla collera alla freddezza senza però riuscire a celare le lacrime. Negli ultimi anni ha alimentato i palinsesti televisivi, tra varietà di risulta e avventure private: forse avrebbe meritato spazi più giusti.