La prima e più evidente eredità è la sua resistenza: non nel canone, nella popolarità. Nessun autore del secondo Novecento italiano, salvo Pasolini (più per via dell’icona pubblica che di una lettura concreta), ha la stessa riconoscibilità. È il “classico” compagno di classe: si scopre sui banchi. Un male? Un bene? Un oggettivo dato di fatto. Se dici Italo Calvino, dici un nome familiare. Il barone rampante fra le intramontabili letture estive, Se una notte d’inverno un cimelio generazionale, le Fiabe italiane nella biblioteca di ogni scuola primaria, Le città invisibili il libro-feticcio degli architetti. Ma il fatto è che c’è sempre un altro Calvino dentro Calvino. Basta cambiare porta d’accesso, sceglierne una meno usuale, ed ecco un’immagine nuova.

Scrittore freddo? C’è sempre, in verità, un calore rattenuto, una tenerezza timida, lontana – come i pennoni dei bastimenti al porto di Sanremo, dove passò l’adolescenza avendo per compagno di liceo Eugenio Scalfari. L’illuminista Calvino, tuttavia, non cede al sentimentalismo, ingaggia una battaglia gentile contro l’istinto e l’imprecisione. Scrivere non gli viene facile. Anche a voce “tirava fuori le parole con fatica e lentezza”, conferma Natalia Ginzburg, e rimproverava ai suoi colleghi la tendenza a pensare troppo poco. Lui pensa moltissimo, l’iper-consapevolezza lo spinge a lavorare su tutti i tavoli possibili, a tentare tutti i generi senza chiamarli per nome: fiabesco, iperrealista, filosofico, bozzettistico, fantascientifico. Inventa Le Cosmicomiche per decifrare messaggi che arrivano da galassie lontane con milioni di anni di ritardo. Scrive Se una notte d’inverno un viaggiatore ed è il romanzo di tutti i romanzi, un libro-game dove tutto è calcolato per comunicare, per paradosso, “il senso d’un mondo precario, in bilico, in frantumi”. Progetta un libro sui cinque sensi, Sotto il sole giaguaro, per cercare ulteriori possibilità di espressione.

Elabora le proverbiali e troppo citate Lezioni americane, che l’hanno reso, con Eco, lo scrittore italiano più internazionale. Un giovane Jonathan Lethem, scoprendo che Calvino non le avrebbe tenute (morì l’estate prima di partire per Harvard), visse quell’assenza “come un affronto personale”. Il volume che le raccolse postume sembrò un breviario di scrittura: era invece il ritratto degli umani di questo secolo. Leggeri. Rapidi. Esatti (quando vogliono, lo sono in modo stupefacente). Visibili al punto di saper gestire la propria “visibilità”. Molteplici, anzi multitasking, come si dice dei software (software: prodotto leggero!). Mancava un’ultima lezione: l’avrebbe intitolata “Consistency”, spessore, coerenza. Avrebbe cominciato con il “Preferirei di no” pronunciato da Bartleby, lo scrivano inventato da Melville: per farci cogliere, immagino, il valore di certe rinunce, di un silenzio giusto, “in un tempo in cui tutti dicono troppo”, di parole pesate più a lungo. “Il fatto è che lui più che affermare una sua verità vorrebbe fare delle domande, e capisce che nessuno ha voglia di uscire dai binari del proprio discorso per rispondere a domande che, venendo da un altro discorso, obbligherebbero a ripensare le stesse cose con altre parole, e magari a trovarsi in territori sconosciuti, lontani dai percorsi sicuri”.

Proprio là dove si avventurano in pochi, anche fra gli scrittori. In questo senso, la lezione Calvino – sempre che come tale si possa indicarla – è disattesa da più punti di vista: a partire da una iper-consapevolezza letteraria, oggi poco rivendicata, semmai nascosta (laddove esista). Tolto forse Daniele Del Giudice (1949-2021), che Calvino stesso presentò al pubblico, è difficile marcare una linea-Calvino nel paesaggio delle scritture contemporanee. Salvo forse che in una crescente propensione - non necessariamente legata in modo diretto all’influenza dell’autore delle Cosmicomiche - a un’alleanza strategica fra prospettiva scientifica e prospettiva letteraria, saldate nella ricerca di storie che funzionino anche come esperienze conoscitive.