Secondo Jorge Luis Borges ci sono solamente tre storie fondamentali per l’umanità: l’Iliade, l’Odissea, i quattro Vangeli. Rispettivamente la storia di Troia, di Ulisse e di Gesù. Ovvero, una città assediata e difesa da uomini coraggiosi, le vicende avventurose di una ricerca e di un ritorno, il sacrificio di un dio. Borges sostiene che l’uomo non fa altro che continuare a raccontare queste tre storie secondo continue trasformazioni.

A partire dall’ultimo dei tre archetipi mi colpisce una storia sacra, raccontata nel capitolo 22 di Genesi: quella di Abramo, che obbedendo alla voce divina sale sul monte Moria per sacrificare il figlio Isacco. Vista la fedeltà di Abramo – che non ha negato a Dio l’unico figlio, l’erede tanto atteso, compimento della promessa di una discendenza numerosa – un angelo verrà mandato a bloccare la mano del patriarca già armata contro l’inerme Isacco. Un montone impigliato in un cespuglio sarà il sacrificio vicario – Dio lo aveva preparato ancor prima che Abramo arrivasse in cima – che verrà offerto sull’altare.

Una storia potente che per molti aspetti e con altri esiti è prefigurazione di quella di Cristo – l’agnello di Dio – che sul monte Calvario si offrirà in sacrificio al Padre, per redimere il peccato e la morte. Una storia che – oltre a teologia e filosofia (Kierkegaard, Kant) – ha ispirato ogni arte: la pittura con Michelangelo (con questa sua opera è in corso una mostra a Lecco, “Il mistero del padre”), Caravaggio, Gentileschi, Rembrandt, Chagall; la scultura (Brunelleschi, Ghiberti…); la musica (Metastasio); la poesia (Turoldo); la letteratura (Sgorlon). E non da ultimo il cinema.

La vicenda regge il quarto ed ultimo capitolo de La Bibbia del 1966, uno dei film italiani più visti in sala in tutti i tempi. Diretto da John Houston e prodotto da Dino De Laurentiis, è la riduzione del titanico ogetto di narrare sul grande schermo l’Antico e il Nuovo testamento, affidandolo a vari registi tra cuiFellini, Kurosawa, Bresson, Welles e Visconti (che però si sfilarono). Ad essere realizzato sarà solo questo film che si ferma ai primi 22 capitoli del primo libro, Genesi. Nel cast lo stesso Houston, Stephen Boyd, Peter O’Toole, Franco Nero, Pupella Maggio, Gabriele Ferzetti, Richard Harris, Michael Parks, Ava Gardner e il marito premio Oscar George C. Scott nei panni di Abramo. La scena del sacrificio fu girata in Sardegna sul monte Corrasi, sopra Oliena, nel Supramonte.

De Laurentiis non badò a spese: la carreggiata dell’attuale strada è ancora quella realizzata per far salire le troupe. L’altare è ancora visibile, cosi come la colonia di colombi bianchi, non autoctoni, entrati nella fauna locale per via della scena finale (realizzata dal vivo, non in post produzione) in cui Dio ferma la mano di Abramo e come segno di riconciliazione si levano in volo un migliaio di questi volatili (che poi si moltiplicarono).

Una non memorabile versione fantasy-thriller è Second Name, lavoro spagnolo del 2003 diretto da Paco Plaza: racconta la storia di un sacrificio umano contemporaneo, macabramente eseguito dalla setta degli abramiti, per i quali il patriarca avrebbe effettivamente ammazzato Isacco. Curioso il caso del film statunitense His Only Son (2023), prodotto, scritto e diretto da David Helling. Opera low budget (250.000 dollari, raccolti in crowdfunding), ha incassato 14 milioni, portando all’evidenza come Oltreoceano il “cinema cristiano” abbia spesso un enorme successo, a differenza del mercato nostrano.

A ben pensarci, indagando il significato autentico del brano biblico, è molto attuale la vicenda drammatica di Abramo e Isacco. Quel figlio per Abramo non è solo il compimento del desiderio di paternità ma il segno che la promessa di Dio si stava concretizzando: “Renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo”. Ma quando Isacco è grande, Dio, torna da Abramo con una proposta: offrirgli il figlio in sacrificio. Una sfida per noi inammissibile. Isacco per l’anziano genitore è il prezioso possesso atteso, ma con la scandalosa richiesta Dio lo invita a cambiare lo sguardo sul figlio: non più possesso ma dono. Mentre la nostra comprensione è assorbita da quello che riteniamo un assurdo tentato omicidio famigliare sventato in extremis, la pagina biblica ci invita a coglierne il mistero profondo. Quel figlio dovrà vivere, per dare lui stesso vita e iniziare un popolo nuovo. Ma ciò potrà accadere solo se il patriarca sacrificherà che quel figlio sia “suo”.

Prima dell’episodio sul monte, Isacco è definito da Dio (che così quasi accusa Abramo) “tuo figlio”. Dopo la positiva soluzione della vicenda sarà chiamato “il ragazzo”: Isacco assume finalmente agli occhi del padre una consistenza personale autonoma. Non più subordinato a chi lo ha generato, è riconosciuto come persona, non come proprietà. Essere padre, ma anche madre, marito, compagna, figlio, amica, non significa sentirsi padroni dell’altro per potervi esercitare un diritto. L’altro, pur se saldamente legato a noi, non è “nostro”, ma ci è dato in dono. Quanto abbiamo bisogno in questo tempo in cui per un’errata concezione dell’amore – che in realtà è possesso – troppi uomini offendono e uccidono donne, compagne, mogli. Il vero amore rende liberi, non possiede. Le grandi storie contengono – lo ricorda Borges – gli ingredienti fondamentali che ci aiutano a comprendere non solo la letteratura ma la vita. E a vivere da persone autentiche.