La cronaca ci sta bruscamente ridestando da un sogno, vivere in pace.

Dopo l’aggressione russa in Ucraina che ha scatenato un conflitto che dura da quasi due anni, ecco l’assalto di Hamas che ha mietuto vittime soprattutto tra civili israeliani e la conseguente risposta militare degli aggrediti che non può che infliggere sofferenze anche ad altri civili. Ci scopriamo circondati dai conflitti e contagiati da un male con cui convivere.

Chi ancora crede in una filosofia della storia che – generazione dopo generazione, scoperta dopo scoperta, conquista dopo conquista – consentirebbe all’umanità di progredire verso un’era di benessere e serenità ha di che meditare.

Davvero la pace è frutto di alleanze, tecniche, trattati?

Davvero noi abbiamo vissuto in pace dalla fine del secondo conflitto mondiale? Che dire allora della dissoluzione manu militari della ex Jugoslavia, al centro della nostra Europa? Non ricordiamo la terza guerra mondiale “a pezzi” (come l’ha definita papa Francesco) formalmente scatenatasi a Manhattan, l’emblema del mondo occidentale, l’11 settembre 2001?

Fare o non fare la guerra non è quindi una questione di progresso (la potenza delle armi sì, quella progredisce): l’uomo di ogni epoca purtroppo cede alla tentazione demoniaca della violenza e della guerra.

Ogni generazione pazientemente è da “evangelizzare” sull’inutilità della guerra e sulle sue drammatiche conseguenze, visibili e inimmaginabili, sulle vie più promettenti per risolvere i conflitti.

La narrazione per immagini delle guerre ha un ruolo fondamentale in quest’opera di “annuncio” della pace. Molti sono i doveri e le responsabilità di chi fa documentari, cinema. Ad esempio, narrare selettivamente gli eventi bellici (solo quelli che possono riguardare noi) e raccontarli a partire da un approccio esclusivamente fattuale, indugiando sulla crudezza della distruzione e della morte che causano, ricercandone le straordinarie cause geopolitiche (irrisolvibili questioni etniche, confini contesi, azioni ostili da contenere o vendicare…) ci hanno illuso che il conflitto armato fosse un incidente di percorso nel cammino dell’umanità.

E invece no: è un rischio sempre presente, un’opzione sempre attuale, antica quanto l’essere umano.

Torna alla mente un documentario visto nella sezione “Orizzonti” alla Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia: era il 2020, ma la sua attualità si dispiega anche ora (è visibile su Prime Video).

In Guerra e pace Martina Parenti e Massimo D’Anolfi attraversano un secolo di rappresentazione e documentazione della guerra, articolando il loro viaggio in quattro tempi, il passato remoto della spedizione italiana del 1911 in Libia, rivista attraverso i filmati custoditi dall’Istituto Luce; il passato prossimo dell’incessante lavoro di contatto dell’Unità di crisi della Farnesina; il presente dell’École des métiers de l’image della Legione straniera francese, a Fort d’Ivry; il futuro tutto già “sovrascritto”, digitalizzato e antivirale della Cineteca Svizzera della Croce Rossa di Losanna. Sono passati anni, ma quella prima visione ha rafforzato la convinzione che la guerra finisce certamente sui libri di storia, sicuramente è fatto epocale che semina eccezionalmente morte, ma è anche e soprattutto un accadimento di tutti i giorni. E la pace – di converso – è un breve periodo tra una battaglia e l’altra.

Purtroppo il significato reale di questa che è tra le peggiori esperienze umane, appartiene solo a chi è coevo e coinvolto nel dramma della guerra.

Ma il cinema, l’immagine, hanno un compito promettente e il lavoro dei due artisti milanesi lo mostra con evidenza: la loro decisività non sta tanto nell’informare sullo svolgimento di un conflitto, indagarne le cause o cogliere il senso della violenza. La devastazione e le conseguenze di un conflitto sono invece da immortalare per poterle consegnare alle generazioni future. La trasmissione del racconto da una generazione all’altra (l’uomo lo fa da sempre, in ogni civiltà) con la potenza delle immagini ci può rendere consapevoli delle responsabilità che tutti abbiamo per realizzare la pace.

Chiediamocelo anche oggi, nell’infodemia che ammorba i nostri smartphone: qual è il ruolo - delle immagini? Non devono occuparsi di dare forma ad una memoria che diviene così accessibile per tutti, per provare a muovere in senso differente le nostre azioni?

Abbiamo bisogno di una narrazione per immagini, di documentari, di cinema che in modo autentico rendano ragione della memoria, non in senso compilativo, archivistico, ma per condividere la traccia che permane nelle donne e uomini che vivono queste esperienze drammatiche.

In questo mese (a Roma, dal 14 al 18 novembre) Fondazione Ente dello Spettacolo celebra la XXVII edizione di Tertio Millennio Film Fest: vuole essere il luogo di questa condivisione della memoria per promuovere il dialogo tra religioni e culture diverse attraverso la lingua franca del cinema.

A partire dall’Armonia delle differenze – titolo mutuato da un’espressione di Papa Francesco – le opere in concorso e le occasioni di riflessione e formazione per i più giovani che il programma prevede, vogliamo evidenziare come “l’altro”, se diverso da noi, non sia da considerare come ostacolo o nemico ma da vedere nella sua originalità: con la sua storia, i suoi problemi, le sue risorse.

È dono, anche impegnativo, che ci raggiunge come possibile arricchimento e non una presenza da evitare – o peggio, come accade nei conflitti – da sopprimere. Crediamo che le vie di pace abbiano un inizio promettente proprio da qui.