“Non si può sempre essere neutrali…”, mormora il sergente francese Marchand, (l’attore Georges Siatidis), Casco Blu delle Nazioni Unite nella missione United Nations Protection Force, UNPROFOR, di stanza in Bosnia dal 1992 al 1995, nell’illusoria speranza di proteggere la popolazione civile dai pogrom. Il sottufficiale Marchand è l’eroe del film No Man’s Land - Terra di Nessuno, Premio Oscar diretto e sceneggiato nel 2001 dall’artista bosniaco Danis Tanović, quando ancora le memorie della guerra nei Balcani, caduto il regime del Maresciallo serbo Tito, erano vive.

A Srebrenica, il 12 luglio del 1995, i soldati ONU restano indifferenti, neutrali e impotenti quando le soldataglie serbo-bosniache invadono la città e i Caschi Blu riescono appena a sgombrare donne e bambini, mentre sugli uomini si abbatte la rappresaglia, con migliaia di morti. La memoria di quei giorni atroci è perduta, da chi, in talk show sciagurati, chiede, ossessivo come un carillon, “E il bombardamento Nato a Belgrado?”, come fosse paragonabile all’invasione immotivata di Putin in Ucraina.

Vale dunque la pena di rivedere la pellicola di Tanović, con le sfortunate imprese del sergente Marchand, uomo di buona volontà sconfitto dalla guerra crudele e dalla sua gemella ipocrita, la finta neutralità pacifista di chi lascia il passo alla morte, in nome di un diritto da Azzeccagarbugli. In una scaramuccia, da trincee opposte e popolate da soldati che, solo pochi mesi prima era connazionali, compagni di partite di calcio e birra al bar, per ritrovarsi nemici giurati, il bosniaco Čiki, (l’attore Branko Đurić) e il serbo-bosniaco Nino (Rene Bitorajac) finiscono insieme, tagliati fuori dai plotoni, nella terra di nessuno di un ridotto. Pian piano, si feriscono a vicenda, offendono, ricattano, minacciano, ripetono gli slogan politici, trovando dolci ricordi comuni.

No Man's Land (Webphoto)
No Man's Land (Webphoto)
No Man's Land (Webphoto)

Un altro bosniaco, il buon Cera interpretato da Filip Šovagović, viene dapprima creduto morto, e da un serbo criminale steso su una mina antiuomo, così che, all’arrivo dei soccorsi, esploda, ferendo i commilitoni. Cera, invece, rinviene, ma Nino e l’amico Čiki lo bloccano: provasse ad alzarsi in piedi, l’ordigno che ha sotto la schiena esploderebbe in mille schegge, dilaniandolo con chiunque gli sia vicino.

Qui Tanović avvia la sua grottesca parabola, l’accanimento dei combattenti e l’inane attendismo Onu, i giornalisti a speculare sugli scontri per un po’ di audience, i generali a flirtare sul lavoro, i politici in cerca di status quo contro le rogne. Il circo di chi finge di assicurare la pace rumoreggiando in prima serata, Onu e organizzazioni multilaterali a bofonchiare di cessate il fuoco, senza muovere un dito per il povero Cera. Solo il sergente Marchand decide di aiutarlo. Mobilita una inviata tv, si impone a superiori neghittosi, fa intervenire un artificiere tedesco, sperando di disinnescare la mina. Invano.

Quando si comprende che la trappola mortale è perfetta, Nino e Čiki, che pure sembravano sul punto di fraternizzare, tornano nemici mentre un cinico ufficiale Onu, in nome della “pace”, annuncia di aver salvato Cera, lasciandolo invece crepare sotto le cannonate, con i giornalisti gonzi da abboccare. Già Alberto Sordi, nel finale di Tutti a casa, (Luigi Comencini regista, 1960), prendendo le armi durante la Resistenza a Napoli, come sottotenente Innocenzi per vendicare “Ceccarelli”, il mite soldato incarnato da Serge Reggiani, dice fermo, “Eh no, non si può sempre stare a guardare!”. Battersi per la pace è dovere etico in Ucraina: ma “stare a guardare” o “essere sempre neutrali” aiuta la guerra, non la sradica.