Qual è l’importanza di Cannes per Unifrance, organismo che si occupa della promozione e dell’esportazione del cinema francese all’estero?
È enorme, basti pensare a come ha fatto conoscere nel mondo Anatomia di una caduta. Anche se è un circolo riservato e competitivo, non è dedicato certo solo al cinema francese. Inoltre, ospita un mercato cinematografico che accoglie professionisti da tutto il mondo. Per noi è però anche un momento gioioso di scoperta. Adoro il fatto che ogni anno ci siano almeno un paio di proiezioni da cui esci cambiata, dopo aver visto un capolavoro di cui prima di entrare non sapevi nulla. Può accadere la mattina alle 8:30 come la sera alle 23. È questa onnipresenza di sorprese cinematografiche che rende meravigliosa Cannes. Poi si parla costantemente di cinema, a tutte le ore, al punto che si finisce per dimenticare il resto.

Ha un ricordo in particolare dei suoi anni sulla Croisette?
Prima di Unifrance sono stata esportatrice e ho venduto dei film al Marché. Quello che mi ha più segnata è stato un documentario intitolato Eau argentée di una regista siriana. La proiezione rimarrà sempre nella mia memoria, con la regista che è riuscita all’ultimo momento a lasciare il fronte per partecipare. È stato un momento in cui la realtà della vita di guerra è stata invitata fra le coppe di champagne. Una serata magica, in cui per un attimo tutti ci siamo fermati per domandarci quale fosse il nostro ruolo e la nostra responsabilità, cosa potessimo fare. Una combinazione unica, che non accade frequentemente.

Al Festival di Cannes l’attualità e la politica spesso fanno irruzione in film e documentari, come anche quest’anno con la guerra in Ucraina e a Gaza.
Gli artisti hanno il compito di ripensare il mondo di domani o quantomeno di farci riflettere su quale sia la nostra responsabilità oggi, per arrivare a un domani migliore. È quello che distingue un cinema fatto da artisti, capace di riflettere sulla società in cui vive, da qualche algoritmo o intelligenza artificiale che ci propone quello che conosciamo già, senza allargare lo sguardo o portarci a riflettere. Per questo, festival come Cannes, Venezia o Berlino permettono di discutere senza aver paura di affrontare fragilità e punti deboli.

Parlando di Venezia, negli ultimi anni il cinema francese ha ottenuto molti riconoscimenti al Lido.
Siamo usciti alla grande dalla crisi legata alla pandemia, basti pensare ai risultati di Audrey Diwan e Alice Diop. Il Festival di Venezia è un partner estremamente importante per il cinema francese, con una storia di incontri e scambi che sono quelli che hanno sempre unito Italia e Francia. Un’amicizia che conferma come lavoriamo bene insieme, con lo stesso desiderio di produrre opere non convenzionali. Penso che abbia aiutato in questi successi la forte presenza di donne in Francia, in tutta la catena produttiva, ma soprattutto la capacità di riprendersi in fretta dopo la pandemia, anche grazie al sostegno dello stato.

In Italia si parla spesso del sistema francese come punto di riferimento. Qual è il motivo del suo successo?
C’è un’organizzazione molto strutturata, derivata da una lunga storia di negoziazioni con lo stato. A partire dall’idea geniale, nata dopo la fine della Seconda guerra mondiale, di tassare i biglietti del cinema, ma poi anche le televisioni e ora anche le piattaforme, che devono reinvestire nella produzione nazionale. È questo che permette a tutto il sistema di funzionare: produzione, esercizio cinematografico, distribuzione, compresa Unifrance e una parte del Festival di Cannes. Non è una tassa che ricade sui cittadini, che però possono contribuire andando al cinema o vedendo film in televisione o sulle piattaforme. So che in Italia e altrove si cerca di riproporre questo sistema, ne abbiamo parlato nel corso dei Rendez-Vous di Roma. L’aspetto cruciale è mantenere indipendenza, permettere la libertà di produrre film che mettano in discussione il mondo e la nostra società, venendo anche sostenuti. La ricetta è avere grandi titoli che incassano e insieme piccoli lavori indipendenti. C’è bisogno di tutto e di tutti.

Ha fatto molto discutere la decisione di non candidare per l’Oscar internazionale Anatomia di una caduta.
C’è stato molto dibattito, ma non è facile per una nazione che ha molti film importanti sceglierne uno. Credo che grandi nazioni come l’Italia, la Germania e la Francia non dovrebbero scegliere. Che siano gli americani a selezionare loro stessi. Ai Golden Globe è possibile, agli Oscar no. I film hanno una forza interiore che li spinge più forte di ogni commissione, come ha dimostrato Anatomia di una caduta con le sue cinque candidature.

Ha molto colpito, in Francia, la denuncia per stupro contro i registi Jacques Doillon e Benoît Jacquot da parte dell’attrice Judith Godrèche, che ha parlato del clima patriarcale malsano del cinema francese. Pensa stia cambiando qualcosa?
Bisogna stare attenti, ma molte cose sono cambiate, su tutte il modo in cui funzionano le produzioni. C’è una forte presa di coscienza. Serve ancora una riflessione retrospettiva sulle mancanze del passato e le ragioni per cui si sono verificate, da a parte di uomini e donne. Bisogna chiedere scusa alle vittime per non averle ascoltate, mentre avremmo dovuto farlo. Ma ora lo stiamo facendo e lo faremo. È un processo doloroso, perché circolano nomi di registi che ci hanno conquistato con i loro film.