Nessuno ha raccontato il passaggio dal muto al sonoro meglio di Cantando sotto la pioggia (1952) di Stanley Donen e Gene Kelly, che rievoca con strepitosa vivacità la storia del musical hollywoodiano, i gloriosi momenti a cui il genere deve la sua affermazione in tutto il mondo.

Prodotto da Arthur Freed per la Metro-Goldwyn-Mayer, il film prende il via dalla storica serata del 6 ottobre 1927 in cui decolla il talkie per riproporre attraverso un paio di vecchi, collaudati motivi di Nacho Herb Brown e dello stesso Freed la grande stagione del “backstage musical” in cui le varie fasi dell’allestimento dello spettacolo si alternano alle esperienze personali dei protagonisti. Da La canzone di Broadway (1929) a Follie di Broadway 1936 (1935), da Ragazzi attori (1939) a Ziegfield Follies (1946), la “Broadway melody” è il filo conduttore di un’avventura musicale che coincide con le scoperte della Freed Unity e le performance di Fred Astaire, Ginger Rogers, Eleanor Powell, Judy Garland, Gene Kelly, Cyd Charisse, grazie alle quali la Metro fronteggia l’agguerrita concorrenza della Warner Bros. e della Rko.

Certo, la casa del leone non si è mai lasciata attrarre dalle virtuosistiche acrobazie di Busby Berkeley, il geniale coreografo che, da Quarantunesima strada (1933) a Le fanciulle delle follie (1941), ha creato lo stile cinematografico d’avanguardia in grado di sfidare Broadway sul suo stesso terreno. Ma la forza trascinante del nuovo linguaggio impone anche agli Studios più tradizionali la necessità del rinnovamento, la voglia di trovare la propria strada nei sentieri accidentati ma sorprendenti del musical moderno. Se nelle nuove generazioni di registi a cui si deve la svolta del dopoguerra il posto d’onore spetta senza dubbio a Vincente Minnelli, l’autore dalla spiccata autonomia creativa, subito dopo la personalità più estrosa è Stanley Donen, che con Gene Kelly condivide la regia di un terzetto di film di singolare forza innovativa.

Cantando sotto la pioggia (credits Annex)
Cantando sotto la pioggia (credits Annex)
Cantando sotto la pioggia (credits Annex)

Un giorno a New York (1949), pedinando i tre marinai durante una breve licenza, sostituisce le tavole del palcoscenico con le strade, la metropolitana, i grattacieli, il porto di New York, facendo della città un personaggio fondamentale. L’adrenalinica energia della messinscena si ripropone in Cantando sotto la pioggia, uno dei musical più clamorosi di tutti i tempi. Meno ricordato, ma di grande suggestione, anche È sempre bel tempo (1955), dove i tre commilitoni che si danno appuntamento dieci anni dopo nel loro bar preferito sono costretti a fare i conti con le delusioni della vita in un mondo che, segnato dal decollo della televisione, sta decisamente cambiando. Superba la partitura musicale, con tre memorabili motivi, da “I Like Myself”, che Gene Kelly canta e danza sui pattini, quasi un simbolo della precarietà esistenziale, a “Situation Wise” che offre a Dan Dailey l’occasione di sfoggiare le sue eccezionali capacità mimiche, e a “A Baby You Knock Me Out”, la magnifica sequenza di danza con Cyd Charisse, circondata da un curioso balletto di anziani palestrati. All’epoca non manca il successo neppure ai due film che Stanley Donen dirige da solo, il più spettacolare Sette spose per sette fratelli (1954) che si ricorda soprattutto per la carica atletica dell’ambientazione western, perfetta per sperimentare il cinemascope, e il più sofisticato Cenerentola a Parigi (1957) in cui Audrey Hepburn è memorabile nella sua performance in total black: maglia, leggings e mocassini, che rifà il verso ai balli in voga, come nella elegantissima toilette rossa della mannequin. Se Fred Astaire duetta con lei in “Funny Face” e “He Loves and She Loves”, si esibisce poi nel geniale a solo “Let’s Kiss and Make up”, dove balla con un cappello, un ombrello, un impermeabile.

Sul finire del decennio successivo cala il sipario sul musical classico e i suoi mitici protagonisti, mentre un gran numero di titoli, in bilico tra la sfacciata ridondanza dell’artificio e il richiamo della componente sociologica, inaugura il capitolo finale del genere, in cui nella cabina di regia gli specialisti di ieri cedono il posto a Ken Russell (Tommy), John Badham (La febbre del sabato sera), John Landis (The Blues Brothers), Francis Ford Coppola (Cotton Club), Richard Attenborough (Chorus Line), Woody Allen (Tutti dicono I love you), Lars von Trier (Dancer in the Dark), Baz Luhrmann (Moulin Rouge!), in un affollato gioco di azzardi più o meno felici dove più di una volta spunta la nostalgia per il sogno che, tra voci, canzoni, colori, è ormai irripetibile. Se dovessimo scommettere su un solo titolo per segnalare il passaggio di testimone dal classico al contemporaneo non avremmo dubbi nel citare Cabaret (1972) di Bob Fosse, uno dei titoli più significativi a cui il genere in crisi affida la propria ricerca di identità. Non si può trascurare Joel Gray, che scandisce “Money, Money, Money”, la beffarda ballata di John Kander e Fred Ebb, ma la rivelazione è l’esuberante Liza Minnelli. La sua aggressiva ironia sigla un’epoca, mentre sullo sfondo s’intravedono le ombre di Vincente Minnelli e di Judy Garland.