La conclusione della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia segna, con l’arrivo del mese di settembre, la necessità di una migrazione.

L’idea stessa che ci sia un’apertura di una nuova annata dell’esercizio cinematografico, denuncia, almeno in Italia, che l’esperienza della visione in sala è purtroppo stagionale, nonostante molti siano stati i tentativi (falliti) per portare pubblico davanti al grande schermo anche da giugno ad agosto.

Ma a vedere cosa se non ci sono titoli nuovi?

Forse dovremmo accettare che siamo un paese mediterraneo (sempre più caldo) dove non è così appetibile l’idea di stare al chiuso anche nella bella stagione. Siamo poi l’Italia dei mille borghi con le mille sagre, alternative alla sala. Concentrare quindi l’attenzione sugli altri nove mesi dell’anno non è esercizio così inutile. I numeri, quando furono gloriosi non vennero raggiunti certo a Ferragosto.

Si è iniziata la stagione con l’iniziativa (tutta a carico dell’esercizio) di promozione a biglietto scontato per portare pubblico in sala: lodevole, nei giorni della “festa” i risultati sono stati buoni, il ministro in (s)carica ne ha gioito, ma poi? È il prezzo del biglietto il problema che tiene vuote le sale? È quindi 3,50 euro il valore che il pubblico assegna a questa esperienza? Si è indagato su chi siano questi spettatori (nuovi? distratti? a corto di soldi?) portati in sala dalla promozione? Sono il caldo, il proliferare delle sagre, i prezzi, le cavallette, i problemi oggi dell’esercizio italiano che perde spettatori anche rispetto al primo anno della pandemia, quello delle sale chiuse?
Oppure l’influenza di queste concause insieme alla concorrenza delle piattaforme, agli strascichi pandemici, all’esperienza di visione offerta da esercizi non sempre all’altezza, alla diminuzione delle sale (meno schermi, meno pubblico)?

A proposito: i costi di esercizio aumentati in modo vertiginoso mettono a rischio la sopravvivenza di molte sale, già ora in respirazione artificiale (e benedetta) grazie a ristori e sussidi vari. E se gli schermi diminuiranno ancora, non potranno che calare ulteriormente gli spettatori.

Quanti impianti mono schermo usciranno vivi dalla tempesta perfetta, che si preannuncia ancora più distruttiva a causa delle nuove norme in arrivo sul tax credit finalizzato all’esercizio, preannunciato ancora più premiante per i multisala, a discapito di cineclub e sale della comunità?

Da dove partire? O meglio come ripartire?

Forse è il caso di migrare.

Ci piacerebbe in Francia, dove politiche intelligenti di sostegno all’esercizio e alla produzione danno frutti sempre più buoni, dove i livelli di pubblico pre-pandemia sono riacciuffati.

Il signore delle formiche (foto di Claudio Iannone)
Il signore delle formiche (foto di Claudio Iannone)
Il signore delle formiche (foto di Claudio Iannone)

Ma se da un grande festival come Venezia esce subito in sala un bel film come Il signore delle formiche di Gianni Amelio ecco che si torna al cinema per vederlo e di nuovo un titolo italiano (rarità ormai) per qualche giorno è in testa al botteghino.

Dire che sono molteplici le cause del divorzio tra il pubblico e la sala corrisponde a verità ma fa correre il rischio dell’immobilismo paralizzante nel tentare di risolverne e rimuoverne le cause.
Migriamo allora: da un modo vecchio di vedere programmazione ed esercizio ad uno dove al centro ci sia la qualità e lo spettatore.

Ipotizziamo che ci sia una via maestra da seguire: il valore.

Il valore non solo artistico in modo assoluto, ma anche rispetto al proprio pubblico di ciò che si proietta; l’esperienza unica della visione in sala, vero motivo per cui si esce di casa per vedere i film. Se le opere sono belle e corrispondono al desiderio del pubblico, se la sala venisse maggiormente protetta dalla bulimia delle piattaforme con una politica di “finestre” più incisiva, tutte le altre concause che frenano l’esperienza della visione sul grande schermo passeranno in secondo piano, come dimostrano i numeri dei blockbuster oltreoceano che quando arrivano da noi mietono biglietti come (quasi) ai bei tempi.

Come coraggiosamente Alberto Barbera ha ricordato prima di aprire il suo festival, una politica di concessione dei contributi alla produzione più mirata e oculata farebbe il bene del cinema italiano, ormai raro (per manifesta inadeguatezza) nelle programmazioni di prima visione.

Più cinema italiano (di valore) sullo schermo, maggiore qualità nella e della sala, destinazione primaria verso le sale delle nuove produzioni, più conoscenza del pubblico da parte degli esercenti, sono elementi che potranno non disperdere chi ancora siede davanti al grande schermo e recuperare chi questa passione non l’ha mai sopita ma ultimamente non l’ha praticata.

Questa auspicata politica della migrazione è una attesa che consegniamo anche al nuovo governo.