C’è ormai un tale livello di standardizzazione tra i cinecomics che è diventato difficile distinguerli.

Superata la fase adulta del filone – culminata nella trilogia del Cavaliere oscuro di Nolan – si è tornati in modalità cazzeggio, con i tentpole Marvel più lesti di quelli DC nel catturare il nuovo Zeitgeist.

Addio dilemmi morali e spazio all’autoironia di vigilantes che esibiscono senza più remore la loro dimensione da luna park.

È cambiato il pubblico: bambini e teenager i nuovi committenti dello storytelling in calzamaglia. Nulla di strano dunque se la Warner/DC, dopo le batoste per le ultime cupe versioni di Superman e Batman e, di contro, la trionfale accoglienza riservata al ridicolissimo Suicide Squad, abbia virato su un registro decisamente più soft nel rieditare Wonder Woman, l’amazzone con superpoteri e il volto di Gal Gadot.

Una saga nata crossoverizzata (il personaggio era apparso prima in BatmanVSuperman) eppure singolare, per quelle atmosfere un po’ retrò e quei sincretismi esasperati capaci di mesciare cosmogonia greca, Grande guerra, feuilleton e tocchi steampunk. Soprattutto per quel gesto orgogliosamente femminista e politicamente opportun(istic)o di affidare a una regista donna, Patty Jenkins, la virago più nota del fumetto.

A posto così dunque? Dipende. Piace l’approccio romance (sparring partner un “imballato” Chris Pine) ed è apprezzabile il tentativo di rileggere le prime gesta big screen della Donna Prodigiosa come una sorta di educazione sentimentale. Tanta leggerezza però ha una controindicazione: funziona nel prologo e nei momenti di raccordo mentre finisce per annacquare quelli più drammatici (vedi le scene di guerra, dove l’uso di gas letali ricorda scenari odierni ben più tragici).

Inoltre l’assolutizzazione dei conflitti, dove ogni inimicizia è figlia dello scontro tra Bene e Male, se privilegia più uno sguardo mitologico che metafisico finisce per negarne le trame materialistiche. Poi vai a spiegare ai ragazzi che il mondo è un tantino più complesso.