La rincorreva un uomo grande, e la madre le diceva era il diavolo, negli incubi di bambina, poi avrebbe capito era lei stessa il suo più grande nemico, e che fare?

170 milioni di dischi venduti, il record ineguagliato di sette singoli di fila in vetta alla classifica americana, il film The Bodyguard (1992) che la lanciò nella “stratosfera”, ma anche i tormenti, l’alcool e la droga, fino alla fine prematura: nel 2012 a soli 48 anni se ne va, affogando nella vasca da bagno di un hotel.

Corrono le lacrime, risentiamo la sua voce unica; corrono le lacrime, rivediamo la bella, intelligente e sorridente popstar; corrono le lacrime, lacerti di canzoni bucano lo schermo. Diretto dal premio Oscar Kevin Macdonald, è Whitney, il ritratto documentario della Houston, una superstar canora come poche altre, capace di farsi immagine e immaginario, ugola e Zeitgeist.

Materiali di archivio inediti, esclusive registrazioni di demo, rare esibizioni e interviste originali con familiari e collaboratori, ed ecco spuntare la rivelazione, tremenda: ancora in tenera età, Whitney sarebbe stata abusata sessualmente dalla cugina Dee Dee Warwick, cantante soul scomparsa nel 2008. A darne notizia è il fratello Gary Garland-Houston, che dice di essere stato pure lui violentato dalla Warwick (sorella della più celebre Dionne), la conferma è dell’assistente Mary Jones, detta Zia Mary, cui la cantante avrebbe confidato di essere stata “molestata in tenera età da una donna”.

Atroce, anche perché le conseguenze sarebbero state devastanti: non solo gli eccessi e le sofferenze, ma la decisione di soprassedere alla naturale inclinazione omosessuale per farsi una famiglia, ovvero il marito manesco e balordo Bobby Brown e la figlia Bobby Kristina, che tre anni più tardi ne avrebbe replicato la morte.

Risentiamo I Will Always Love You, successo così globale che Saddam Hussein ne fece il proprio inno elettorale, l’inno americano cantato come nessuno mai e poi mai al Superbowl del 1991, il concerto di beneficenza a Johannesburg del 1994 per chiudere l’apartheid, ma anche l’ultimo, impietoso, disastroso tour inopinatamente imbastito per rimpinguare casse vuote: Whitney era un bancomat, ci mangiarono e turlupinarono tutti.

Era un maschiaccio da piccola, era un miracolo da grande, è viva nel documentario di Kevin Macdonald: da Cannes 2018, vedrete, agli Oscar 2019, e lei, che ameremo sempre. E salvato mai.