Jacek (Mateusz Kościukiewicz) è un tipo bizzarro quanto bonario, metallaro sfegatato e innamorato perso della sua Dagmara (Małgorzata Gorol). Operaio edile nel cantiere di quella che dovrebbe diventare la statua di Cristo più alta del mondo, subisce un gravissimo infortunio, cadendo all’interno della stessa: ne esce sfigurato, tanto da decidere di sottoporsi al primo trapianto facciale effettuato in Polonia.

Settimo lungometraggio della polacca classe 1973 Małgorzata Szumowska (Elles, In the Name of… e Copri, Orso d’Argento per la regia a Berlino 2015), è Mug, ovvero “muso, grugno”, da noi tradotto in Un’altra vita.

Tanti i temi pesanti e pensanti che mette in scena, dall’istituzione religiosa al senso del sacro, dal cinismo dei media al rifiuto e lo stigma del mostro, il dramma con qualche notazione parabolica riflette sulla bisettrice tra il miracolo divino e la possessione demoniaca, echeggiando in Jacek l’Elephant Man di David Lynch.

Non mancano, dunque, i motivi di interesse, innestati nel dato di cronaca della statua di Cristo di Świebodzin, inaugurata nel 2010 come la più alta al mondo dopo cinque anni di lavori finanziati dai fedeli, ma tutto è troppo geometrico e meccanico, ovvero didascalico e programmatico, per rendere giustizia al racconto, all’intelligenza – almeno da presumere – dello spettatore, e in definitiva al cinema stesso.

Se nell’Eucaristia ingurgitiamo il Corpo di Cristo, a Jacek accade il contrario, viene traumaticamente ingurgitato dal Cristo stesso: Małgorzata Szumowska si bea della trovata, ma non (si) va oltre. Peccato, è il caso di dirlo.