La madre, le sovviene, fu immolata dai familiari ‘ndranghetisti: la giovane Rosa (Lina Siciliano) decide che non farà la stessa fine, e cerca vendetta. Liberamente ispirato al libro Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il Paese dalla ‘ndrangheta di Lirio Abbate, anche soggettista con il co-produttore Edoardo De Angelis, e sceneggiatore, è Una femmina, co-scritto e diretto da Francesco Costabile, selezionato alla 72esima Berlinale nella sezione Panorama.

Dopo il bel documentario su Pier Paolo Pasolini In un futuro aprile, realizzato a quattro mani con Federico Savonitto nel 2019, Costabile esordisce al lungometraggio dirigendo un’assoluta esordiente, Lina Siciliano, scovata durante una serie di provini in Calabria: per entrambi, non è un’impresa facile, perché un film sulla ‘ndrangheta dal punto di vista femminile porta con sé due sguardi, uno antropologico-criminale e l’altro poetico-melò, da sintetizzare.

Per il primo corno ci sono due modelli, o comunque precedenti, nel nostro cinema: Anime nere (2014) di Francesco Munzi e la trilogia di Gioia Tauro di Jonas Carpignano, e segnatamente l’ultimo capitolo A Chiara (2021). Per il secondo c’è, nella filmografia dello stesso Costabile, la trasfigurazione, lì anche traslitterazione, di In un futuro aprile. La sintesi guarda a Il vizio della speranza di De Angelis, echeggiato anche nella rassomiglianza fisica tra Siciliano e la protagonista, nonché moglie del regista, Pina Turco, per il voltaggio poetico-criminale, per il prospetto femminile nell’accostare, ovvero trascendere, ovvero trasgredire, il milieu.

Bocca muta e sguardo fiero, Rosa è premessa di rigore etico e promessa di felicità cinematografica, fintanto che rimane spada di Damocle, minaccia silente, soluzione in potenza, il problema è lo scioglimento, vale a dire l’assestarsi e il farsi del film sui binari del revenge movie, in cui quella indeterminata femmina del titolo diviene questa Rosa, in coincidenza con l’uscita di scena del suo primo e primario antagonista, ovvero lo zio familias Fabrizio Ferracane. Il secondo tempo non ha alternative all’altezza, ma personaggi e attori – il boss Ciccio incarnato da Vincenzo Di Rosa e il love interest Gianni di Mario Russo, per tacere del cugino macchiettistico Natale interpretato da Luca Massaro – figli di una drammaturgia, e ancoraggio al reale, minore, rispetto ai quali agevolmente, e vieppiù perniciosamente, Rosa assurge a eroina, caricando il film di una esemplarità e paradigmaticità troppo schietta per non risultare scontata.

Il mosaico trascolora nel monito, la femmina si piglia Una femmina, avvinghiando l’antropologico nelle spire del melodrammatico, la secchezza – e l’opacità – dei fatti nella superfetazione del racconto. Il vizio della performanza, si direbbe, che trasforma la bella immagine – sapevamo di cosa fosse capace Costabile, e non si smentisce: si veda la luna estatica, le montagne incombenti – in vizio di forma.

Se c’è, il peccato è originale, in quello strattonarsi di generi e registri che si sacrificherà sull’altare, appunto, dell’esemplare e dell’edificante. A scapito della materia prima della realtà: l’ambiguità, l’incomprensibilità, l’elusività. Ci si può bruciare, di messa a fuoco.