La lenta agonia di una vecchia famiglia d'industriali. Con Un castello in Italia Valeria Bruni Tedeschi ci e si regala un memoir sofferto e insieme giocoso. Un pezzo di biografia buffo, eccentrico, viscerale, che per impostazione ricorda più La guerra è dichiarata della Donzelli che Il Giardino dei Finzi Contini di De Sica.
I protagonisti fanno di nome Rossi Levi, ma il dettaglio non deve ingannare: il transfert, se c'è stato, non si recepisce. Dai Bruni Tedeschi li separano scarti minimi, ipotesi personali di una narratrice implicata. E' Valeria Bruni Tedeschi anche se di nome fa Luisa. E Marisa Borini è in ogni caso sua madre, dentro e fuori dal set. Persino la grande casa di famiglia a Castagneto Po è appartenuta ai Bruni Tedeschi prima di finire – tornare - nelle mani dei Rossi Levi. Manca Carla, ma questo è un film dedicato a Virginio, il fratello, morto giovane. Filippo Timi gli rende giustizia.
Il rapporto tra fratello e sorella è forse la cosa migliore del film. Senz'altro la più bizzarra. Dal reflusso libero di ricordi personali, veri ma non necessariamente reali, rimessi alle immagini, affiorano anche vecchi amici di famiglia scrocconi, amanti francesi (qui Louis Garrel, bello, maledetto e complicato, da copione), preti e suore e monaci di profana scorza.
Si sente Checov ma si pensa al jazz, tanto tutto è senza centro, senza ordine, senza schemi. Difficile stabilire se sia anche senza stile. Qualcosa di autentico, persino di bello, riluccica da questo cubo in soggettiva che gira ottuso, altera fatti, deforma volti. Riapre ferite: se non per sanarle, almeno per restituire loro un senso, il posto in una storia. Il cinema serve anche a questo.