I personaggi di Lioret non sono paladini di giustizia ma persone che “incontrano” altre persone, mossi dal calcolo suggerito dalla comune condizione umana. In Welcome, un istruttore di nuoto assecondava il desiderio di un giovane clandestino di raggiungere la fidanzata in Inghilterra, in barba alle difficoltà oggettive dell'impresa (l'attraversamento a nuoto della Manica e l'aggiramento della legge contro l'immigrazione voluta da Sarkozy). In Tutti i nostri desideri, invece, toccherà a due giudici farsi carico del diritto di una madre di costruire un futuro per sé e i figli senza finire strangolata dal cappio degli istituti di credito.
E' questa ovvietà eroica a scardinare pian piano gli automatismi del potere e a conferire al suo cinema un tono straordinariamente sommesso. Peccato che la battaglia legale sulle clausole contrattuali delle banche appassioni poco, costringendo Lioret a giocare la carta della malattia terminale per far impennare il film. Un colpo basso che rischia di marginalizzare oltremodo il tema portante della vicenda riportandola sui binari del cinema ospedaliero.
Lacrime al netto di vere emozioni. E un sospetto di artificiosità che neanche l'immobile intensità di Vincent Lindon riesce a fugare.