Si può tenere insieme Peter Weir e Rob Zombie? Certo che no, e qualcuno lo dica a Justin Kurzel, regista e sceneggiatore australiano classe 1974, in carnet qualche boiata nemmeno pazzesca, vale a dire Macbeth (2015) e Assassin’s Creed (2016).

Tornando in patria per cantare il mito del Jessie James aussie Ned Kelly, già al cinema nel 1970 con Mick Jagger e la regia di Tony Richardson e nel 2003 con Heath Ledger, enfatizza  i suoi difetti, ovvero eccesso e dunque decesso di stile, drammaturgia lasca e tenuta non stagna, sicché ravvisare un ubi consistam e una continuità poetico-stilistica in True History of Kelly Gang è impresa disperante.

Si parte anche bene, ma l’insistenza nei droni, nelle plongèe già butta male, e nel criminale che si farà (George MacKay) oltre alla grandezza si insinuano i germi dell’eterogeneità: affondi piscologici, intimità familiare (la madre totem Essie Davis), maschi scontri, prima con il sergente Charlie Hunnam e poi – ruba la scena – il fuorilegge Russell Crowe, c’è tutto, ma la consecutio è balbuziente.

Non che sia girato male, appunto, né che manchi la carne al fuoco, però nell’epica dell’outlaw dell’outback, che di origini irlandesi gli inglesi li prendeva almeno a pugni, Kurzel trova tutti i segnaposto, dalle baracche ai deserti aridi, dalle copule sciatte alle ammazzatine rapide, dal fragore banditesco al torpore sentimentale (Thomasin McKenzie), ma non il menù: dopo il coming of age e la circospezione antropologica, la sortita della banda fa virare il film sul punk e lo Zombie (Rob), manco fossero due registi diversi.

Mancando la Storia, in definitiva, si perdono anche le storie: Ned non ci conquista, impiccato com’è da sottotesi, svolte e impicci, questi sì, larger than life.