Tre donne, l’una dentro l’altra. Ovvero la stessa donna, in tre età diverse: una matrioska. E tre uomini, tutti e tre colpevoli di violenza ai danni di questa donna, anzi, di queste donne: chi la compie, chi non interviene, chi la nega. E’ Tornare di Cristina Comencini, film di chiusura della XIV Festa del Cinema di Roma.

Interpretata adulta da Giovanna Mezzogiorno, che con coraggio mostra, per di più interrogandosi al riguardo, un corpo non canonicamente tonico, adolescente - nel 1967 pre-liberazione sessuale - da Beatrice Grannò e a dieci anni da Clelia Rossi Marcelli, Alice torna dall’America nella villa napoletana dove è cresciuta: sono gli anni Novanta, il padre è morto, la sorella (Barbara Ronchi) l’accoglie, e con lei il misterioso e gentile Marc (Vincenzo Amato).

La quarantenne, madre e single, ritrova la diciottenne e la bambina che fu, mettendosi in dialogo e in ascolto di sé stessa: che infanzia e che giovinezza ha avuto, quanto è stato impositivo il padre, quanto segregata la madre, il suo era innocuo divertimento o, come vorrebbe qualcuno, ninfomania, era Alice “una ragazza sbagliata” o è stata interrotta? E perché se ne dovette precipitosamente andare da Napoli?

Il flusso memoriale incontra presenze, più che fantasmi, intercetta ricordi perduti e verità omesse: Alice cerca di raccapezzarsi, spalancando il film al baratro della violenza di genere. L’intenzione della Comencini, che peraltro viene dal doc Sex Story, è chiara: riflettere sulla violenza dell’uomo sulla donna, senza infierire più di tanto sui colpevoli, bensì sondando e accarezzando le vittime.

Empatico, accudente e contenente, Tornare però non trasforma con il necessario rigore, l’auspicabile nettezza poetica e la richiesta pulizia formale queste premesse e promesse, diminuendo nel procedere ondivago se non confuso, stemperando nella diffusa irresolutezza l’homo mulieris lupus. Peccato.