I belgi Jean-Pierre, classe 1951, e Luc, classe 1954, ovvero i fratelli Dardenne, sono la crème de la crème di Cannes. Hanno vinto la Palma d'oro con Rosetta nel 1999 e L'Enfant - Una storia d'amore nel 2005, con Il ragazzo con la bicicletta il Grand Prix Speciale della Giuria del 2011 e tanti altri riconoscimenti: insomma, aristocrazia della Croisette.

Il blasone resiste, certo l’appannamento delle ultime prove è incontrovertibile: Due giorni, una notte del 2014 con Marion Cotillard, La ragazza senza nome del 2016, L'età giovane, pur premiato per la regia a Cannes 2019, hanno al contempo ricordato che cosa erano e che cosa non sono più i fratelli.

Sono tornati sulla Croisette per la nona volta in Concorso con il loro dodicesimo lungometraggio di finzione – sì, il termine non rende giustizia alla loro abituale tensione per la realtà, tant’è – Tori et Lokita.

Focus sull’immigrazione, ovvero i problemi che devono affrontare i richiedenti asilo, attraverso due giovani di 12 e 16 anni provenienti dall'Africa subsahariana e interpretati da Pablo Schils e Joely Mbundu: Tori e Lokita, appunto, che si fanno, o almeno provano, una nuova vita in Belgio.

Immigrazione ed esilio sono congeniali ai fratelli: dallo sfruttamento dei clandestini ne La Promessa (1996) alle conseguenze dell’unione illegale della protagonista albanese de Il matrimonio di Lorna (2008), li hanno sempre indagati con una camera all’altezza dei loro personaggi, analitica nelle disamina ed empatica nella resa.

Altro tema ricorrente, la giovane età dei caratteri principali: infanzia o adolescenza hanno già informato Le Gamin au vélo, Le Jeune Ahmed, e come non ricordare Il figlio, dove tra vendetta e redenzione un teenager problematico si prendeva la scena?

Uguali e diversi, sono tutti invisibili su cui Jean-Pierre e Luc accendono i riflettori: non per sanzionare né per stigmatizzare, ma semplicemente per illuminare questioni non sanate, problemi annosi, giacché davvero molto poco è cambiato dopo Rosetta, “l'umiliazione provata da coloro che sono esclusi dalla comunità lavorativa e umana è ancora lì”.

Chissà se Tori e Lokita sono davvero fratello e sorella o se si sono conosciuti sul barcone, invero poco importa: devono sopravvivere; mandare a casa dei soldi a madre, di Lokita, e cinque fratelli; devono stare nel centro di accoglienza; devono cantare al karaoke del locale – fanno, e bene, Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi che hanno imparato approdando in Italia – e spacciare per lo chef; devono, Lokita, sottostare alle richieste sessuali dello chef; devono, Lokita, curare le piante di marjuana; devono dare soldi ai figuri della chiesa che li ha portati in Belgio; devono, ancora, sopravvivere. Con un solo obiettivo, nei fatti in miraggio: ottenere i documenti, ovvero vedersi garantire l’asilo: a Tori, accusato in patria di essere un piccolo stregone, di avere il diavolo in corpo e quindi minacciato di morte, verrà concesso, ma a Lokita?

I fratelli li tallonano, con l’umanità di cui sono capaci, il mestiere di cui sono (stati) maestri, e commuove la resistenza di Tori (Pablo Schils è un bambino, ma è da premio), tosto e svelto e affettuoso (i disegni…) e la fragilità di Lokita, preda di attacchi di panico, e come altrimenti.

C’è, e non poco, del buono nel film, ma molto non va: didascalismo e “spiegazionismo” hanno piena e vasta residenza nel copione, la parola potere sull’immagine, la programmaticità, la paradigmaticità e l’esemplarità, ovvero una serie di sfortunati eventi ai danni dei due, esibite e, francamente, nocive.

Si sente la scrittura, l’apriorismo e la costruzione a tesi, si legge a caratteri persino cubitali il messaggio a discapito dell’imperfezione, dell’ambiguità e contraddittorietà della realtà: peccato, per i fratelli, per Tori e Lokita, per lo stesso cinema. Poteva, e doveva, essere un grande film: lo è solo a tratti, mannaggia.