Opera prima del barese Ascanio Petrini, già cortista, unico italiano alla 34esima Settimana della Critica, Tony Driver inquadra l’eponimo, all’anagrafe Pasquale Donatone, nato a Bari, espatriato negli States a metà anni Sessanta all’età di nove anni, professione tassista a Yuma, finché non viene pizzicato in un blitz anti-immigrazione: trasporta illegalmente quattro messicani, e da non cittadino americano può scegliere tra la detenzione in Arizona e la deportazione in Italia per dieci anni. La seconda, sicché lo ritroviamo in una grotta lunare a Polignano a Mare, ma non domo: in Italia, così piccina così asfittica, non si (ri)trova, vuole deve tornare in America, e non c’è muro che tenga.

L’idea, ovvero il soggetto umano, è anche interessante, ma Tony Driver non sorpassa mai lo spunto iniziale, e drammaturgicamente spesso trova la corsia d’emergenza: non documentario di mera osservazione, non film di profonda riflessione, sta un po’ appeso come il suo protagonista in un’auto-fiction di dubbia presa sul reale e sull’irreale, che è poi la condizione esistenzial-giudiziaria di Donatone.

Un’occasione sprecata, labilmente antropologica, debolmente politica, defettibilmente cinematografica.