Si parte, e si arriva, lì, da quel che siamo e quel che prendiamo, ospitiamo, acquisiamo, accogliamo, volenti o nolenti: Murgia e Sushi. A Spinazzola la strampalata – così tanto? – trovata di Checco Zalone non sortisce il successo sperato: lui emigra, i parenti obbligati in solido lo vorrebbero morto e, forse, saranno accontentati. In Africa “mi sarà possibile continuare a sognare”, sicché Checco cambia il verso di percorrenza, della rotta dei migranti e del suo cinema: scopre il fisco nero friendly e scansa – deve - il fiasco, ché il film è costato più di 20 milioni di euro e 40 è la misura minima da saltare.

Location in Kenya, Marocco, Malta e Italia, gestazione annosa e venti settimane di riprese, Tolo Tolo, dal 1° gennaio 2020 su 1200 e più schermi, ritrova l’arcitaliano Checco, lo rimodula su frequenze invero già toccate dal nostro cinema, da Riusciranno i nostri eroi… di Scola con Sordi a Piedone l’africano e Io sto con gli ippopotami con Bud Spencer, e lo fa anche arcistraniero, estraniandolo dalla maschera che abbiamo lungamente, largamente e copiosamente apprezzato: chi è questo Checco, e dove sta, è razzista o no, salviniano o che, bergogliano o altrimenti, e con il celentanismo come la mettiamo?

Lui esula, si sottrae, però tira dritto, e appunto cita il Mussolini del discorso di Trieste che annuncia le leggi razziali: il neoregista Luca Medici, in arte Checco Zalone, frulla Flaiano, Caparezza et alii, quelli che a grattare un italiano trovi il fascista e se ne esce con la metafora antifascista della candida, che col caldo e lo stress si palesa.

E’ il solito Checco, a tratti, preferisce “l’Isis, hanno più umanità che quella donna”, l’ex moglie; dirime tra F16, aereo, e F24, dichiarazione dei redditi; esorta indigeni colti e cinefili a “pensare all’Africa, troppa cultura e poca moneta”; saluta “il maschilismo”, così diserto e osteggiato alle nostre latitudini; si compiace della pariteticità ai bagni pubblici “tra l’abile e il disabile”; si bea che “la gnocca salva l’Africa”.

Sì, è sempre lui, che ad Agadez prende per i fondelli il Bertolucci del Tè nel deserto e cambia colore all’adagio: “Razzisti! Il vostro problema è il colore della nostra pelle”.

Anzi, sicuri sia proprio lui? C’è Mentana, c’è Giletti, c’è La lontananza sai è come il vento e Nicola Di Bari, Endrigo e De Gregori e i pezzi originali di Checco, ma l’agenda e l’enciclopedia non sono le solite, c’è un distacco tra questo e lo Zalone che fu, tra il Paese reale, quello mediatico e quello che potrebbe/dovrebbe essere.

E’ un film di faglia, Tolo Tolo, perfettibile, discutibile, ma non liquidabile. Le ambizioni sono palesi, non nella regia né nel montaggio che tradiscono ingenuità e sciatterie, ma nell’assunto: fare un film con un migrante italiano in Africa il cui attore/regista/demiurgo è il golden boy del nostro cinema da qualche lustro, che s’è dovuto reinventare e ha osato reinventarsi pescando nella melma del nostro qui e ora, dello stato dell’arte culturale, sociale e politica.

Impresa non da tutti, e il rischio di Tolo Tolo è proprio di non essere di tutti, nonostante la tensione ecumenica evidente, nonostante le convergenze parallele tra indifferenza (il Checco iniziale) e compiacenza, ignavia e accoglienza, buonisti e radical chic, neri che tradiscono e francesi fatui, insomma, quella grigia poltiglia dell’oggi e quella mediocritas che Medici e il produttore Pietro Valsecchi – è il loro ultimo film, contrattualmente – sperano aurea al box office.

Il bambino (Nassor Said Byra) si chiama Doudou, e la pronuncia è pericolosamente canin-berlusconiana, la “madre” Idjaba (bella e brava Manda Touré) forse si prostituisce, che da rotta a tratta è un attimo, Checco naviga a vista, echeggia Faccetta nera e predica che “il fascismo come la candida si combatte con l’amore” e anche, con i migranti naufraghi in mare, che “lo stronzo sempre resta a galla”.

Nonostante le apparenze, non è prendere o lasciare, ma prendere e lasciare insieme, come fa un Paese intero e forse pure la coscienza collettiva, strabica come la cicogna del finale – infelice - animato.

Perso Gennaro Nunziante alla regia, e si vede e un po’ si sente, Medici/Zalone non si rifà con Paolo Virzì, soggettista, inteso regista e poi rimasto sceneggiatore, non si sa con quale agio: l’autorialità, o supposta tale, è sempre un rischio, di sinistra ancor più, e per Checco sarebbe addirittura mortale, se non altro in termini di pubblico. Lo sa, lui per primo.

Certo, alcuni colpi vanno davvero a segno, dai migranti redistribuiti a kilogrammi per l’Europa alla parabola dimaiano-contiana-salviniana di tale Gramegna (Gianni D’Addario), che passa da disoccupato a premier senza passare dal via, dal rifiuto di Vibo Valentia quale porto sicuro alla canterina “I love you just the black you are”.

L’afropizzica è il mood, ma la pacchia è finita, e speriamo non lo sia per lo stesso Checco: il coraggio della traversata nel deserto l’ha avuto, ma per andare dove? Al botteghino il più avanti possibile, certo, ma poi?

La recensione più efficace, e il bacio della morte insieme, l’ha data in sala Nichi Vendola, che ha un gustoso e verboso cammeo: “Si sorride, più che ridere”. E in questo sorriso Checco Zalone, in arte Luca Medici, rischi di trovarsi solo solo, pardon, Tolo Tolo.