Dopo America e Alone, la regista americana Garrett Bradley esordisce al lungometraggio e firma uno dei più bei film dell’anno, Time. Migliore documentarista all’ultimo Sundance, il primo di una teoria di meritati allori, fa di un amore a distanza l’avvicinamento al problema di cui già in Alone: il sistema giudiziario, e penitenziario, statunitense, che colpisce pesante sui più deboli, dunque, i neri, che sono il 13,4% della popolazione, eppure oltre il 50% dei detenuti con pene maggiori di 50 anni.

Una discriminazione che Bradley non persegue politicamente o statisticamente, bensì formato famiglia, quella della indomita, fiera e totalizzante Fox Rich, madre di sei figli, imprenditrice, attivista e abolizionista che lotta per il rilascio del marito Rob G. Rich, che sconta una pena di sessant’anni al Louisiana State Penitentiary ribattezzato Angola per una rapina in banca commessa da entrambi all’inizio degli anni Novanta in un momento di disperazione.

Bradley ne avrebbe fatto, dopo Alone, focus sulla separazione delle coppie per via carceraria, tramite cui ha conosciuto la donna, un altro cortometraggio, sennonché Fox le si presentò con una raccolta di nastri miniDV che documentava per filo e per segno i ventuno anni vissuti senza il marito, fatti di vita familiare, compleanni, vacanze e traguardi filiali, ché “la famiglia è tutto e tutto è famiglia”, ricorsi intentati, telefonate, lezioni e comizi, prese in carico di altre famiglie distrutte dall’incarcerazione.

Bianco e nero che sigilla l’unione tra l’archivio di Fox e le riprese di Garrett, musica sinfonica, tempo – altro che Tenet – avanti, indietro e à rebours, Time vincerà l’Oscar per il documentario, per ora vince in empatia, impegno e devozione: “Dobbiamo ricordare – sostiene la producer Lauren Domino - che l’amore non provvede solo fede e speranza, ma promuove il cambiamento”.

In cartellone alla Festa di Roma, dal 23 ottobre su Amazon Prime Video: se il theatrical è a pezzi, lo streaming si vede benissimo.