U.R.S.S. 1939. Il tenente dell'esercito polacco Janusz (Jim Sturgess) viene accusato di spionaggio dal partito comunista e condannato a 25 anni di lavori forzati in Siberia, dove "il carcere è la natura”. Provato dal freddo e dalla penuria di cibo, il prigioniero capisce che l'unica possibilità di salvezza è la fuga. Alla testa di un gruppo di uomini coraggiosi - tra cui un gangster russo (Colin Farrell), un americano taciturno (Ed Harris) e una “rossa” pentita (Saoirse Ronan) - attraverserà distanze siderali di gelo, fame e disperazione. 6.500 Km a piedi fino alla "libera" India: non tutti però ci arriveranno. Ispirato all'autobiografia dell'ex ufficiale polacco Slavomir Rawicz, rivelatasi poi un falso, The Way Back è un “ritorno” a tutti gli effetti perché riporta Peter Weir dietro la macchina da presa sette anni dopo Master and Commander (il film è del 2010, ma arriva da noi adesso, con colpevole ritardo). E, come quella ai confini del mare, anche questa è una sfida ai limiti della sopravvivenza che disattende tanto la struttura del prison-movie quanto la retorica della rievocazione storico-politica. L'occhio di Weir, semmai, si distende rapito sull'enigma di una Natura che non è né madre né matrigna, ma teatro indifferente delle sorti degli uomini. L'effetto è ipnotico, alimentato ad arte dalla sontuosa fotografia di Russell Boyd e dall'avvolgente partitura musicale, motori di una visione affascinata, terrorizzata, qua e là estetizzante. Il registro è simbolico e la credenza nella forza altrettanto potente e misteriosa della Cultura e dei suoi Ideali rovescia il romanticismo allucinato alla Herzog e il classico trascendentalismo americano. Qualche lungaggine e il sospetto di artificiosità che affiora in alcuni momenti - come nella lunga sequenza della “Passione” della Ronan - non pregiudicano l'efficacia di un film che sembra rievocare a tratti lo spirito di Flaherty. E non gli impediscono, grazie anche all'ottimo apporto del cast, di raggiungere la meta di ogni ritorno: il cuore.