Indipendentemente dalle tendenze attuali, dalle mode, dalla frenesia della vita contemporanea nelle nostre grandi metropoli, il regista francese Philippe Garrel continua instancabilmente a forgiare il suo percorso di purista che lavora in bianco e nero e a perfezionare il suo studio psicologico, con una leggera tendenza alla rimozione, delle emozioni umane più semplici ai limiti dell’esistenzialismo, al punto che l'intera sua opera senza dubbio costituirà, alla fine, un grande romanzo cinematografico.

Con The Salt of Tears, presentato in concorso alla Berlinale, il regista costruisce un nuovo capitolo di umile bellezza. Incastonato in una sottile costruzione fatta di momenti, echi e ripetizioni ad incastro, il film analizza sulla sua superficie (e attraverso tre parti) l'esplorazione dell'amore da parte di un giovane seduttore che galleggia in un territorio sconosciuto, in questo caso Parigi.

A un livello più profondo, esamina i legami emotivi tra il giovane e suo padre e le conseguenze della disattenzione. È un viaggio contrastato attraverso le tentazioni effimere della giovane età adulta, che rivela l'incoerenza e la codardia degli uomini.

"Tutte le porte possono essere aperte, il tuo futuro è in pericolo", gli dice il padre prima della partenza da una provincia francese che potrebbe essere quella di cento anni fa. Quando Luc (Logann Antuofermo) arriva a Parigi, per sostenere l'esame di ammissione alla famosa scuola di arti applicate Boulle, porta con sé tutte le speranze di suo padre (André Wilms), lui stesso falegname.

Ma il giovane passa la maggior parte dei suoi giorni lì a flirtare con Djemila (Oulaya Amamra), una giovane donna che ha incontrato alla fermata dell'autobus. Ci sono baci e abbracci e Luc torna presto a casa con una promessa romantica: "Non ti dimenticherò mai".

Eppure, diventa presto un bugiardo riappare Geneviève (Louise Chevillotte), una ragazza che lo amava quando erano adolescenti. In ogni caso, lui la respinge rabbiosamente quando scopre che è incinta proprio mentre sta per tornare a Parigi. Lì, incontrerà una terza donna, l'infermiera Betsy (Souheila Yacoub), che lo dominerà e lo farà soffrire tanto quanto ha fatto soffrire Djemila e Geneviève.

La delicata sceneggiatura scritta dal regista insieme a Arlette Langmann e Jean-Claude Carrière, punta  a una storia morale che non giudica che guarda dritto al cuore,  all'ombra della morte (la bara fatta da un padre e suo figlio, la storia del suicidio nascosto del nonno, l’aborto, l’attenuazione dei sentimenti).

Una bella ed elegante lezione di cinema e un modesto spettacolo d'amore contaminato dalla malinconia del ricordo di un padre. Il film piacerà, se non a tutti, sicuramente ai fan del regista.