Non batte Good Night, and Good Luck, ma con altrettanta certezza fa dimenticare le sue ultime, deludenti prove dietro la macchina da presa, Monuments Men, Suburbicon e pure la serie Catch-22: dal 23 dicembre su Netflix, The Midnight Sky attesta, o conferma, che la regia per George Clooney non è un passatempo, ma una professione esercitata con dignità e, non così raramente, felicità.

THE MIDNIGHT SKY (2020)
Felicity Jones. Cr. NETFLIX

Adattando il romanzo di Lily Brooks-Dalton Good Morning, Midnight - come si vede lemmi ricorrenti… - complice la penna di Mark L. Smith (Revenant), Clooney firma una science fiction intimista, un occhio ecologicamente posato sulla Terra, e la sua distruzione, un altro all’umanità in via d’estinzione, per lo più a causa di sé stessa. Lo fa, invero, con ampio ricorso alla fantascienza ultima scorsa, da Gravity a Solaris (starring egli stesso), da Interstellar ad Ad Astra, da Tomorrowland a The Martian, e quasi mai facendo meglio, a parte il sanguinolento epilogo di una camminata spaziale, di quegli illustri precedenti, eppure, la forza, ovvero la dolenza, di The Midnight Sky risiede altrove, nel respiro corale di una razza umana messa a repentaglio, se non spacciata: qui, nella nostalgia canaglia, nel rimorso pervasivo, nel viaggio al termine della vita, e dunque nella malattia, Clooney trova un registro sommesso quanto fascinoso, riflessivo quanto ispirato, straordinariamente e vieppiù sorprendentemente accordato, anche nel rimando ecologico, al qui e ora pandemico.

Più che alle immagini “spaziali”, che vanno ascritte ai visual fx e che, notazione molto personale, non ho potuto non considerare già terribilmente vecchie e finte al solo annuncio del viaggio spaziale, senza virgolette, di Tom Cruise, la trasposizione deve al survivalismo senza epos ma con pathos dello stesso Clooney, che con barba canuta e orizzonte no future (chemio e trasfusioni) incarna il dottor Augustine Lofthouse, un astronomo illuminato e brillante, che decide di rimanere solo al Barbeau Observatory del Circolo Artico, evacuato in elicottero nel 2049 in seguito a un non meglio catastrofico, e radioattivo, “evento”.

La sua resistenza, non più solitaria: nella base Augustine rinverrà la piccola e ammutolita Iris – tenete a mente il nome – interpretata dall’esordiente Caoilinn Springall, è accostata, e quindi collegata, alle vicissitudini dell’equipaggio della navicella a forma di iris Aether, di ritorno da un viaggio esplorativo sul pianeta K-23, una satellite di Giove con condizioni promettenti per la vita umana: capitanata da Ade (David Oyelowo) e pilotata dal veterano Mitchell (Kyle Chandler), con l’aiuto di Sanchez (Demián Bichir) e Maya (Tiffany Boone), la crew ha in Sully (?), ben incarnata da Felicity Jones, l’elemento di punta, almeno drammaturgicamente. Incinta di Ade, non sa, al pari dei suoi compagni che la Terra e i terrestri sono KO: riuscirà Augustine a darle la non lieta, ma salvifica, novella?

Empaticamente e morbidamente vestito della colonna sonora di Alexandre Desplat, uno degli ineludibili pregi del film, The Midnight Sky rappresenta per Clooney un importante passo in avanti, e non solo per le dimensioni di scala: la distopia è contrita, provata e privata, la corsa allo spazio azzoppata, la Terra tremante, e senza strafare, e non senza scopiazzare, George dà alla gravità un verso centripeto, un’accezione più umana che spaziale, più drammatica che fantascientifica. Non benissimo, ma bene: agli Oscar ci sarà.