Meglio fosse rimasto una chimera, un’utopia, una grande incompiuta. A conti fatti, ovvero a film visto, non è The Man Who Killed Don Quixote, bensì "The Film Who Killed Don Quixote": un pastiche di arte e vita, palco e realtà, epica e prassi male amalgamato, molto pasticciato e vieppiù sprecato.

Tanto rumore, anzi, tre decenni quasi di gestazione per nulla, per un roboante pugno di mosche: il documentario Lost in La Mancha (2002), sulla sua non realizzazione, è più realizzante del film infine realizzato. Povero Gilliam, che sulla Croisette (chiusura fuori concorso) ha perfino rischiato di non esserci: lui per un “colpetto”, il film per la querelle che l’ha contrapposto al produttore Paulo Branco, infine capitolato di fronte al giudice.

Jonathan Price è un Don Chisciotte idealista e dileggiato, anche dolente ma vieppiù rincoglionito; il Sancho Panza e anche regista (Toby Grisoni) Adam Driver una vittima e un correo, sopra tutto, un attore che non sa dove buttare la testa, alla mercé di una sceneggiatura imbelle e caciarona; Olga Kurylenko è bionda, e nient’altro; la Dulcinea non di Quixote ma di Panza cagnescamente interpretata da tal Joana Ribeiro, mentre Jordi Mollà fa la nemesi.

 

Nelle convergenze parallele tra Cervantes e film su Cervantes, all’interno di questo film su un film su Cervantes, Gilliam perde la barra, gli spettatori la speranza di un ubi consistam, un centro di gravità poetico-stilistica permanente e pertinente: migranti e mussulmani, russi danarosi di vodka, escort e schiavitù sessuale, a caval donato forse non si guarda in bocca, ma a cavaliere ritrovato sì, e purtroppo non c’è molto, se non la confusione e l’irresolutezza, la cialtroneria e la faciloneria a dare nell’occhio.

Cantava qualcuno, l'importante è finire, caro Gilliam, e non necessariamente con un film. Ahilui, e ahinoi.