Quando una persona è in fin di vita spesso si attua un gioco tra le parti: il malato e chi gli sta accanto fingono che tutto vada bene. Ecco, è un po’ quello che fa il regista israeliano Dani Rosenberg che decide di filmare suo padre, malato terminale di tumore, facendolo diventare l’attore protagonista del suo futuro film, che poi sarà la sua opera prima dal titolo The death of cinema and my father too.

A nulla valgono i continui rimbrotti del padre: “Trovati un lavoro! Spegni la telecamera!”. Rosenberg vuole filmare, o meglio fermare, i momenti che passano e che non tornano più. Vuole bloccare il tempo che scorre strappandolo al flusso della durata. E lo fa con la sua macchina da presa, tampinando quasi ossessivamente suo padre e non mollandolo mai. Non può farlo perché vuole tenerlo in vita e non riesce a separarsene.

Imbalsama porzioni di mondo e di tempo (d’altronde il teorico francese André Bazin parlava di “complesso della mummia”) in vari formati, dal vhs al digitale, dai filmini d’archivio al super 8, e gioca con la memoria e con i ricordi, e non si arrende all’incombenza della morte.

Tra la conservazione e il tenere in vita, questo film, che doveva andare a Cannes 2020 e che ora è in concorso al Med Film Festival, affronta dunque in modo personale e intimo il grande tema dell’elaborazione del lutto.

Ma è anche una riflessione potente sul potere delle immagini e sul linguaggio del cinema tra campo e controcampo, tra chi riprende (il figlio) e chi non vuole essere ripreso (il padre), tra visibile e invisibile, tra vita e morte.