Il 2 gennaio 1969, al termine di un anno di conflitti culminato con l’uscita del doppio White Album (inciso senza che i quattro praticamente si incrociassero mai), più che mai orfani del manager/padre Brian Epstein, i Beatles si ritrovano negli studi cinematografici di Twickenham. L’obiettivo è un ritorno alle origini: suonare dal vivo, senza sovraincisioni o missaggi, in presa diretta come negli anni precedenti all’abbandono dei concerti dal vivo.

In una ventina di giorni scarsa, i Fab Four devono tirare fuori quattordici canzoni per un nuovo LP da presentare live in uno speciale televisivo, il tutto mentre vengono costantemente filmati dalla troupe del regista Michael Lindsay-Hogg per il contemporaneo rilascio di un film documentario. Una missione gigantesca, quasi suicida visti i tempi ristretti e la ruggine ancora fresca tra i componenti del gruppo: lo speciale TV salterà, al suo posto avrà luogo un improvvisato concerto sul tetto degli uffici della Apple (con poche canzoni in scaletta, replicate anche due o tre volte), che di fatto sarà la loro ultima esibizione pubblica. Parte del materiale delle sessioni diventerà l’album Let It Be, pubblicato nel 1970, un mese dopo lo scioglimento dei Beatles.

E Let It Be era anche il titolo del documentario firmato da Michael Lindsay-Hogg, bistrattato alla sua uscita dagli stessi Beatles (che di quelle prove non erano mai stati realmente contenti) e irreperibile da tempo in home video, forse perché uscito troppo a ridosso dallo scioglimento della band per non scrollarsi di dosso quell’atmosfera “tetra” da end of an era. Cinquant’anni dopo, Peter Jackson riscrive totalmente la storia attingendo all’intero materiale audio e video registrato da Lindsay-Hogg, ripulito e utilizzabile pressoché integralmente grazie alle nuove tecnologie a disposizione: delle 60 ore di girato (e oltre 100 audio), Jackson ne seleziona più di otto, sfornando un vero e proprio documonstre in tre puntate.

Get Back è una finta miniserie, un documentario su un documentario dal minutaggio spropositato ma necessario. L’operazione si pone agli antipodi della monumentale Anthology (documentario, 3 doppi CD e libro), che a metà anni ’90 rinverdì la leggenda beatlesiana divulgandola alle nuove generazioni: questo è un prodotto per fans fatti e finiti, ansiosi di partecipare a una riproposizione del già noto da una diversa angolazione, che inquadra i Beatles e chi era intorno a loro, dagli amici hare krishna di Harrison a George Martin, da Glyn Johns al road manager Mal Evans, fino allo stesso Lindsay-Hogg coi suoi comici quanto infruttuosi tentativi di portare i Beatles all’anfiteatro di Tripoli per il live show. Ogni accenno all’imminente fine della band è tenuto sapientemente in background, come l’archetipo di una tragedia teatrale la cui trama è a tutti arcinota: il diegetico vuol essere più fedele possibile al clima di quelle settimane, smentendo tutte le voci di conflitti e litigi arrivate fino a oggi.

Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison, and John Lennon in THE BEATLES: GET BACK. Photo courtesy of Apple Corps Ltd.
Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison, and John Lennon in THE BEATLES: GET BACK. Photo courtesy of Apple Corps Ltd.
Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison, and John Lennon in THE BEATLES: GET BACK. Photo courtesy of Apple Corps Ltd.
Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison, and John Lennon in THE BEATLES: GET BACK. Photo courtesy of Apple Corps Ltd.

Il che espone ai più classici interrogativi del caso: quel che ci propone Jackson (fan spassionato del gruppo) è realtà o frutto di montaggio? Quanta ingerenza ha avuto McCartney, produttore e unico sopravvissuto del trio creativo composto da lui, Lennon e Harrison? Sono domande francamente inutili, che esistono da quando esiste il montaggio al cinema, e che in epoca di reality show riaffiorano assieme al cinismo disilluso di chi le pone. Jackson non smonta il castello di Lindsay-Hogg, ma ne amplia la profondità; rifugge cinquantennali pettegolezzi (usando gli stessi Beatles per sbeffeggiarli) e mette al centro del discorso solo la musica, componendo un solenne, ipnotico elogio del processo creativo e dell’estenuante lentezza che lo contraddistingue.

Difficilmente sarete stati un pomeriggio intero in sala prove a vedere i vostri amici suonare, senza voler scappare. Ecco, coi Beatles non ve ne andrete. Resterete semplicemente in trance a guardarli, mentre Paul accenna quasi casualmente melodie che fonderà successivamente nel long medley di Abbey Road, mentre affiorano in nuce perle delle rispettive carriere soliste come Another Day, Jealous Guy (qui ancora intitolata On the Road to Marrakech), All Things Must Pass (che dà il titolo al triplo LP d’esordio con cui Harrison stupì tutti).

I fans del quartetto accedono con immagini che sembrano girate ieri a una verità per troppi anni ingiustamente secretata: i Beatles, al netto di nervosismi e spaesamenti di turno (e del memorabile abbandono di George Harrison, qui finalmente documentato ripulendo testimonianze audio fino a oggi inutilizzabili), appaiono come una cosa sola, solari, lieti di suonare e cazzeggiare insieme (con l’aiuto del formidabile tastierista Billy Preston).

Quattro ragazzi neppure trentenni in grado di comporre dal nulla Get Back, di proporre una mattina dal nulla una gemma come I, Me, Mine, di prodursi in sfiancanti sessioni di registrazione che spesso e volentieri culminavano nel nonsense o nella sperimentazione con la partecipazione di Yoko Ono, antico zimbello dei fans più oltranzisti, qua finalmente restituita al suo semplice ruolo di spettatrice; anche se è proprio Paul, con una battuta memorabile, a presagire gli strali che riceverà a causa della sua onnipresenza al fianco di Lennon (“Fra 50 anni rideranno dei Beatles sciolti perché Yoko si è seduta su un amplificatore”).

The Beatles in THE BEATLES: GET BACK

È proprio McCartney il perno del documentario: forse l’unico a credere al progetto, a tuffarcisi anima e corpo seguito con iniziale riluttanza dagli altri tre, l’unico a credere davvero di poter tornare al clima spensierato delle origini. Ma i ragazzi sono cambiati. Ringo ha impegni extramusicali, George vuole più spazio, John è in completa simbiosi con Yoko e totalmente assente con la testa. Paul stesso è cresciuto, la sua maturità compositiva impone un rimpasto delle gerarchie interne che porterà a un rigetto inevitabile. Troppo diversi, questi Beatles quasi trentenni, e il White Album è ancora lì a dimostrarlo.

Tornare indietro nel tempo è impossibile: ma forse il tempo si può fermare, per pochi minuti, sul tetto di un palazzo, con una manciata di canzoni in grado di mostrare a tutti, un’ultima volta, il miracolo dei Beatles. Ed è un miracolo che si ripete, incredibilmente, cinquant’anni dopo, lasciando ancora a bocca aperta.