Presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival e proiettato alla 16esima Festa del cinema di Roma tra i film della selezione ufficiale, Terrorizers di Ho Wi Ding è un thriller atipico che ci racconta degli effetti della tecnologia sulla società.

Ambientato a Taipei ai giorni nostri, racconta le vicende di un gruppo di giovani taiwanesi che vedono i propri destini incrociarsi per caso: l’aspirante attrice Yu Fang (Moon Lee), il suo ragazzo Xiao Zhang (J. C. Lin), Monica (Annie Chen), amica di Yu Fang anch’essa aspirante attrice, e Ming Liang (Austin Lin), un ragazzo solo e ossessionato da Monica e dai videogiochi.

Il thriller, che all’inizio sembra quasi una commedia romantica raccontando la nascita dell’amore tra Yu Fang e Xiao Zhang, prende ben presto la piega di una severa critica al modo in cui la realtà virtuale e la tecnologia impattano la società e la vita degli individui.

“In Asia la situazione con i videogiochi è davvero folle in questo momento”, ha detto il regista nel corso di un’intervista. “È diventato davvero un grande problema per i giovani perché spendono troppo tempo in un mondo virtuale fasullo, e non riescono più a separare la realtà dai videogiochi”.

Nel film di Ho, infatti, Ming Liang è un ragazzo ossessionato dai videogiochi, il mondo in cui si rifugia per sfuggire alla realtà in cui vive, dove i suoi ricchi genitori sono separati e non gli dedicano abbastanza attenzioni, e in cui non parla con la sorellastra Yu Fang che incrocia fugacemente negli spazi comuni della casa che condividono. Nella realtà alternativa che si è costruito Ming Liang è un ninja che deve proteggere la sua ragazza – Monica – che però non sa nemmeno della sua esistenza.

Anche Monica è vittima della tecnologia: nel perseguire la sua carriera di attrice è perseguitata da un filmato porno di cui era stata protagonista e che, grazie alla rete, continua a ripresentarsi nella sua vita.

Mentre il messaggio del film è chiaro e il montaggio non lineare e la bella fotografia di Jean-Louis Vialard ne fanno uno spettacolo piacevole a cui assistere, tuttavia la caratterizzazione dei personaggi basata su alcuni clichés, rende difficile allo spettatore riuscire ad empatizzare con i protagonisti.

Il ragazzo ricco e viziato che, trascurato dalla famiglia, si rinchiude nel mondo dei videogiochi che lo spinge all’uso della violenza nella vita reale; il topos dell’amore platonico non corrisposto, sono tutti elementi che lo rendono un film molto diverso dal Terrorizers del 1986 di Edward Yang, esponente della cosiddetta “nouvelle vague” taiwanese. A differenza della versione di Ho, qui la storia si svolge tutta sul piano psicologico dei protagonisti e si può quasi percepire la loro angoscia, il senso di inadeguatezza che provano nei confronti della società e l’insicurezza che deriva dal non conoscere il proprio posto nel mondo.

Nel film di Yang il protagonista “stalker” è anch’esso un ragazzo ricco innamorato di una giovane a cui è riuscito a scattare solo una foto fugace ma, in questo caso, la metafora utilizzata dal regista per esprimere il suo scollamento dal resto del mondo è quella della camera oscura usata per sviluppare le foto. Il protagonista di Yang è un fotografo squattrinato con una ricca famiglia alle spalle, nel suo appartamento disadorno – trasformato in camera oscura – lo scorrere del tempo semplicemente non esiste perché la luce del giorno non riesce a filtrare attraverso i pannelli scuri che ha messo sulle sue finestre.

Nel passare dalla metafora analogica (la macchina fotografica) a quella digitale (i videogiochi), nella sua versione moderna di Terrorizers, Ho ha abbandonato il piano psicologico volendo forse lanciare un messaggio concreto - una riflessione sulla tecnologia - che tuttavia suona a tratti un po’ semplicistico.