“Alice: Per quanto tempo è per sempre? - Bianconiglio: A volte, solo un secondo”. No, non è il paese delle meraviglie, tantomeno è una meraviglia Eternals, il venticinquesimo film dell’Universo Cinematografico Marvel (MCU), il terzo della Fase Quattro, diretto dalla regista premio Oscar di Nomadland Chloé Zhao.

Centocinquantacinque minuti, che non sono un secondo, sopra tutto non sono per sempre: un’accozzaglia di mitologia greca e non, una cosmogonia for dummies che elogia inclusione e diversità assecondando più che una sceneggiatura come Cristo comanda il manuale Cencelli della Hollywood politicamente corretta qui e ora. La citazione di Gesù non è peregrina, tra (A)Thena e Ikaris, Gilgamesh e Sersi spunta un giovanneo “la verità vi renderà liberi” che di fronte a questo asservimento ideologico allo Zeitgeist, poetico all’MCU, stilistico al CGI riflessivo grida vendetta: ci vuole coraggio, diciamo così.

Creati da Jack Kirby nel 1976, gli Eterni avevano passato quarantacinque anni lontani dallo schermo, con qualche ragione e, anche, a ragione: la trasmigrazione o, se preferite, transumanza dai fumetti allo schermo è guidata dall’ipertrofia cosmogonica, dal giustificazionismo genealogico, dalla crossmedialità – spiccia se non spuria – marveliana, con due scene sui titoli di coda atte ad eccitare i filologi geek.

Per tutti gli altri, ovvero per noi, il titolo non è mai suffragato, nemmeno suggerito da quel che vediamo: è questo cinema fast food, con la marginalità per bandiera (bianca, in realtà), la disfunzionalità per specchietto, la diversity per Verbo. E la noia per sintassi.

Vien voglia di far professione di fede nell’effimero, e data la permanenza di queste immagini non sarà difficile. Equo per algoritmo (cinque donne e cinque uomini per gli Eterni), solidale di necessità, intorcinato per architetture “universali”, Eternals inquadra gli omonimi alieni immortali provenienti dal pianeta Olympia, allevati nella minaccia rappresentata dai Devianti dai Celestiali, demiurgi cosmici introdotti nel MCU da Guardiani della Galassia: qualche migliaio di anni più tardi, la ribellione freme – si fa per dire – e il destino della Terra barcolla. Ma non molla, molliamo noi, ovvero ci interessiamo per due ore e mezza sempre più alla nostra contingente sopravvivenza di spettatori.

Sersi (Gemma Chan) ama l’umano Dan Whitman (Kit Harington), ma non ha dimenticato il suo supereroico ex, Ikaris (Richard Madden); Ajak (Salma Hayek) e Thena (la bionda Angelina Jolie) evocano l’Olimpo, e il matriarcato; Druig (Barry Keoghan) è mentalista 4.0 e Kingo (Kumail Nanjiani, l’unico bravo) bollywoodiano e spassoso; Phastos (Brian Tyree Henry) è afroamericano, geek, gay, con un compagno mediorientale e un figlio piccolo, mentre Gilgamesh (Don Lee) è senza Enkidu; Makkari (Lauren Ridloff) è pièveloce e Sprite (Lia McHugh) eterna dodicenne.

Andranno avanti e indietro per la Storia e la Terra, dalla Mesopotamia ai conquistadores, dall’Amazzonia a Hiroshima, “sintetici e incapaci di evolversi, robot sofisticati con i ricordi immagazzinati nello spazio”, lasciandoci invero appesi alla domanda, una sola: ma quando finisce questa Eternità?