Un film d’autore in assenza d’autore. Non potremmo meglio definire Te l’avevo detto, opera seconda di Ginevra Elkann, che dopo la prima a Toronto arriva alla Festa di Roma, sezione Grand Public.

Non funziona quasi nulla, eccetto gli attori, generosamente bravi e irrimediabilmente sprecati. La spericolata e pericolosa Gianna (Valeria Bruni Tedeschi) persegue la pornostar cicciolinesca che le ha rubato il marito, Pupa (Valeria Golino, larger than life); il sacerdote Bill (Danny Huston) e la sorella giunta dall’America (Greta Scacchi) debbono, o meglio dovrebbero, spargere le ceneri della madre al cimitero acattolico; l’alcolizzata Caterina (Alba Rohrwacher) s’è fatta espungere dalla famiglia, il marito Riccardo (Riccardo Scamarcio) e il figlio Max (Andrea Rossi), il quale invero vorrebbe festeggiare con lei il compleanno; Mila (Sofia Panizzi), figlia di Gianna, alterna bulimia e assistenza all’anziana signora Maria Antonietta (Marisa Borini, madre della Bruni Tedeschi): tutti sopravviventi a sé stessi e r-esistenti in una Roma invernale avvinta dal grande caldo, cui pure sembrano indifferenti nel vestiario, con maglioncini indossati a 38°. La metafora caliente è la spia scoperta di una insensibilità generalizzata? Non ci è dato sapere, ma infastidisce.

Tanti cognomi per nulla, con Elkann sceneggiano Chiara Barzini e Ilaria Bernardini, produce Lorenzo Mieli e così via, l’albero genealogico produce una nespoletta di film: ha i crismi dell’arte - fotografia di Vladan Radovic, montaggio di Desideria Rayner - e gli esiti del simulacro.

Richiama Samuele Bersani, “solo la copia di mille riassunti”, annovera Alain Elkann, non su quel treno per Foggia all’ombra delle fanciulle in fiore ma parimenti su mezzo pubblico e stazzonato: non ne siamo certissimi, fortemente temiamo guardi in macchina. Eppure è pochissima cosa rispetto alla presenza dirompente nel fuoricampo interno: la sua ex moglie, la madre di Ginevra, Margherita Agnelli, cui debbono fischiare i quadri, pardon, le orecchie.

Debuttante al lungometraggio nel 2019 con Magari – la successione dei titoli rivela una certa irresolutezza… - Elkann fa peggio alla seconda volta dietro la macchina da presa. Scambiando l’epigono che è per l’autore che vorrebbe essere, s’apparenta alle siccità di Virzì e gli adagi di Sollima nella temperatura capitolina, ovvero arsura e roghi, e allo stesso Virzì de La pazza gioia deve anche la dialettica, oltre che un’interprete, tra Bruni Tedeschi e Golino.

Più saccente che ambizioso, derivativo di necessità, altmaniano per millantato credito, incapace di onorare la complessità che esibisce, prevedibile per quanto non si vorrebbe, Te l’avevo detto dimostra come l’autorialità sia più della somma dei reparti, più della bravura degli interpreti e dell’importanza dei cognomi. Sì, gliel’abbiamo detto.