Dopo Nuevo orden, Leone d'Argento nel 2020, il messicano Michel Franco torna in Concorso a Venezia, e con Sundown radicalizza e insieme semplifica la propria poetica darwiniana, biologica più che nichilista. Tra conflitto sociale e sopravvivenza individuale, in soli 83 minuti assesta una controllata e letale rasoiata al senso comune, ovvero all’ipocrisia diffusa, al volemose bene inane, che non potrà non soddisfare gli estimatori di Marco Ferreri e, ancor più, di Michel Houellebecq.

I milionari inglesi Neil (Tim Roth) e Alice (Charlotte Gainsbourg) Bennett stanno trascorrendo una lussuosa vacanza ad Acapulco con i giovani Colin e Alexa, finché un lutto non li costringe a un brusco cambiamento. Premesse e promesse verranno brutalmente disattese, Neil stravolgerà lo status quo, richiamando violenza, straniamento e escatologia molecolare sotto il sole aggressivo e indifferente della località balneare messicana.

Sciatto con pinocchietti e birkenstok, elementare se non meschino nelle intenzioni, Tim Roth è il profeta no future di Franco, che procede spedito e meccanico verso il grado zero dell’esistenza umana: il viaggio al termine della vita non è che un’ultima birra, un’ultima scopata, un ultimo tuffo, un ultimo raggio di sole.

È un film piccolo e letale, un proiettile che miete vittime collaterali, e che nondimeno potrebbe essere derubricato a divertissement labile e crudele, cosa che non è: Sundown è abitato – e forse istruito - da un rettile che si concede l’ultimo sole, e se ne frega di tutto e tutti, senza boria, di necessità, con risultanze entomologiche.

Il sesso non ha prezzo ma nemmeno avvenire, la prostituzione minorile balugina, la bestialità delle carceri azzanna, eppure Franco non si ferma, riesuma maiali da allevamento e ne fa incubo canceroso fino alla fine. Nessuna apocalisse, nessuna fuga, nessuna famiglia, nessuno status, solo ineluttabilità: un destino minerale.