Assurto a minima gloria nazionale in seguito ad alcune partecipazioni televisive diventate virali sul web (X Factor e poi Strafactor, il salotto di Barbara D’Urso), Ray Sugar Sandro è un’icona del folclore contemporaneo – nello specifico abruzzese – che macina concerti nei locali e nelle feste di paese della provincia chietina.

Cantante, anzi cantautore, ma anche pittore di arte figurativa e astratta, attore all’occorrenza, imprenditore di se stesso: con i capelli lunghi e mossi e il fisico atletico esaltato da vestiti in pelle indossati quando non imperversa seminudo (nel curriculum c’è un calendario, naturalmente), Ray si è costruito un’immagine inconfondibile.

Ci crede, Ray, che canta l’amore per le donne e per Dio, e seguendo la lezione di un poeta della sua terra, fa della sua vita un’opera d’arte quotidiana, una performance permanente. Che tipo d’arte sia non sta a noi dirlo, eppure Storia di Ray ci offre qualche indizio.

Perché quello di Giuseppe Di Renzo non è solo un documentario di osservazione che testimonia vita e opere del personaggio, ma anche un racconto sorprendente che trova la sua dimensione ideale, perfino più attinente con lo spirito del protagonista, quando mette la realtà al servizio della finzione, la verità riletta secondo il filtro dell’immaginazione, elevando il dato cronachistico a ripensamento onirico.

La spia è nel sottotitolo, tenuto tra parentesi: o l’asino che vola. Il riferimento ad Apuleio è chiaro ed è un’indicazione per capire un film che cambia pelle, anzi rivela la sua doppia pelle: un corpo esibizionista chiamato ad autorappresentarsi virile e “accessoriato” (le auto, le donne); un’anima convinta di contenere il seme di un’arte che il mondo pare non comprendere se non nell’ottica del trash.

A una prima parte che accumula immagini spesso notturne e dai colori acidi, sul ciglio del grottesco, necessarie per restituire orizzonti e fauna (i frammenti del film con Ray, Il giorno del Sacramento, gli interni domestici di fronte al televisore, i nudi frontali del protagonista), Storia di Ray procede verso un lungo epilogo che dialoga con il senso dell’opera citata nel titolo (il montaggio è dell'ottima Aline Hervé).

La trasformazione di Ray costituisce un ipotetico approdo a una nuova consapevolezza, atto finale di un percorso di redenzione possibile solo attraverso l’esperienza del dolore e la fiducia in qualcosa che trascende una vita senza fantasia. Quella che, forse, manca a Nico, fratello e ombra di Sandro, che ha rinunciato a farsi domande per paura di risposte, spettatore passivo di uno show perenne.

C’è un lato disperato, in Storia di Ray, c’è una dimensione tragica che accompagna il protagonista come un fantasma sempre al suo fianco. E non c’è cinismo, in Di Renzo, né si avverte propulsione agiografica: la biografia è un mezzo per offrire uno spaccato sociale e l’empatia confina con l’interesse antropologico, alla ricerca delle radici di una vita vissuta con l’obiettivo di “essere e non piacere, piuttosto che piacere e non essere”.