Una giovane giornalista americana (Margaret Qualley) bloccata nel Nicaragua qui e ora si innamora di un enigmatico inglese (Joe Alwyn) che le appare, ha problemi col passaporto, la via di fuga privilegiata. Ma è così, o si sta buttando tra pericoli maggiori?

Adattato dal romanzo omonimo di Denis Johnson, scritto per lo schermo da Léa Mysius, a Cannes anche con la regia Les cinques diables, e Andrew Litvack, è Stars at Noon, diretto da Claire Denis, interpretato dalla bellissima Margaret Qualley, figlia di Andie MacDowell e già apprezzata in C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, Joe Alwyn, che ha rimpiazzato prima Robert Pattinson e poi Taron Egerton, il panamense Danny Ramirez, un poliziotto costaricano, e – bravo anche come attore – il regista Benny Safdie nei panni di un agente Cia.

È in Concorso a Cannes, dove Denis debuttò nel 1988 con l’esordio Chocolat: oggi, dopo una ventina di lungometraggi e documentari in carnet, la cineasta francese continua a disegnare de decrittare le geometrie variabili delle relazioni umane aderendo a due generi, thriller e romance, e trasportando ai giorni nostri il Nicaragua sandinista del 1984 fotografato da Johnson.

È il suo quindicesimo lungo di finzione, rinnova la sua erranza cinematografica, alimenta l’indagine antropologica ed esistenziale e corrobora l’osservazione e il viaggio, risalenti alla sua infanzia africana, che sono topoi stessi del suo corpus.

Girato a Panama, giacché col governo guidato dall'ex rivoluzionario sandanista Ortega dal 2007 il Nicaragua era inibito, Stars at Noon può anche affascinare, ma non è un film riuscito: il romance appare lezioso, il thriller fin troppo elusivo, sicché il nonsense tanto intellettuale quanto involontario, per giunta a rischio supercazzola, domina entrambi i versanti e il film tutto.

Niente da dire, eccetto plauso, per gli attori, più di qualche battuta – “Che pelle bianca che hai, sembra di scopare con le nuvole o la nebbia” – a segno, ma troppe stasi, troppi tè nel deserto qui solo drammaturgico, troppe iterazioni e secche, troppo compiacimento, perché queste stelle a mezzogiorno non si pretende brillino, ma si vedano almeno.

Che cosa salviamo? Qualley, e non male abbiamo detto nemmeno gli altri interpreti, i sublimi Tinderstick: la band britannica e segnatamente il frontman Stuart A. Staples hanno già firmato, tra gli altri, White Material, High Life, Bastards & Let the Sunshine. Nonché qualche sequenza straniante, nichilista, ambiguissima come il (soprav)vivere oggi, potenziato con spy e dépense.

Ma tutti non fanno un salvagente, anzi, un salvafilm: peccato, le stelle stingono in sceneggiatura, il mezzogiorno è digiuno.