Quando ci si immerge nella solitudine si comprende cosa sia la libertà. E per arrivare a essere veramente soli il percorso può essere tortuoso e difficile da definire.

È un’opera d’esordio Sola al mio matrimonio, ma sembra già un film maturo. Forse perché la regista, Marta Bergman, viene dal mondo del documentario (da storie come Un jour mon prince viendra) dal quale poi ha tratto ispirazione per il suo lungometraggio di finzione.

Sola lo è Pamela (Alina Serban) una donna rom decisa a non vivere più tra le baracche e a smettere di implorare soldi dalla giovane nonna cantante. È istintiva e infantile Pamela anche quando prega Dio per aggrapparsi all’ennesima bugia necessaria per uscire dalla sua misera condizione.

Ha una figlia di pochi anni, eppure Pamela, che non conosce il francese, deciderà di abbandonarla e trasferirsi in Belgio perché è stata scelta come moglie di Bruno da un’agenzia matrimoniale.

Coraggioso e indipendente, Sola al mio matrimonio è un film di figure femminili ma è anche un film di luoghi, squallidi e miseri, di interni cupi e trascurati, di paesaggi bianchi e quasi immacolati che ben raccontano lo specchio dell’animo dei personaggi.