Il miracolo, che era stato il gesto più che il risultato di Salvo, non si ripete in Sicilian Ghost Story.

Non c’è salvezza per i personaggi, direttamente ripescati dalle cronache di sangue dell’isola, metà anni ’90, della memoria incendiata del tritolo e della vergogna sciolta con l’acido (l’omaggio dichiarato è al piccolo Giuseppe Di Matteo, ucciso per vendetta da Giovanni Brusca).

Non si ripete né diventa altro: il registro onirico funziona a intermittenza, momenti in cui l’invenzione sostiene il peso dei vuoti di sceneggiatura.

Non si compatta mai il desiderio di evocare – pulsione sempre presente nella nostra storia cinematografica – con il dovere di comunicare.

Come se raccontare fosse una tediosa incombenza continuamente rimandabile.

Quello tricolore è il cinema dei soggetti, non delle sceneggiature. Spesso e volentieri liberamente ispirati a…

E’ una libertà pericolosa, un’istigazione a volare per chi non sa ancora camminare. Peccato, perché qui il dato di realtà è eloquente di suo: abbiamo una ragazzina di 13 anni, Luna, ribelle in famiglia e sodale per amore di un coetaneo, figlio di un pentito, fatto sparire da un giorno all’altro per legge di vendetta. Il film si consuma nel lamento inascoltato della prima, che prevede e sogna l’inesorabile fine dell’altro.

Si ripete, litanico, riproponendosi in allegorie di spazi - boschi anamorfici, vedute panoramiche notturne, stagni luminescenti, casolari diroccati e metonimici di sventura –  e si organizza in poli conflittuali stereotipati (generazionali, morali, linguistici), dinamiche narrative cristallizzate da un’abitudine a titolare le cose piuttosto che spiegarle.

E tra soggettive di gufi, atmosfere lunari, improbabili immaginari fiabeschi rinuncia pure alla sua singolarità, a quell’indicazione tipica – Sicilian – che pure il titolo suggerirebbe. Così che resta? Una favola sul cadavere della realtà? Un tentativo di “(far) sentire” la mafia che non ricada nei cliché del pilot criminale, utilizzando il sonoro e l’anomalia visiva in funzione perturbante? O l’innocenza tradita di un terra che ha perso possesso e favore degli dei?

L’educazione sentimentale era una chiave interessante, ma mancano porte da aprire e luoghi da attraversare.

Manca poi qualcuno che i film li legga, non li veda soltanto. A Piazza e Grassadonia. E al cinema italiano.