C’è un’altra violenza, oltre alla violenza: l’incertezza, variamente e vanamente declinata. Che è successo alla sedicenne cestista Mandy, che si risveglia sul prato della casa dei genitori senza ricordare nulla della sera precedente? Semplice ubriacatura, o c’è di più? Un video destinato a diventare virale nelle chat degli studenti direbbe di sì: priva di conoscenza, riversa a pancia in giù e circondata dai compagni che le abbassano i pantaloni, e che altro è successo a Mandy, interpretata con catatonica efficacia da Rhianne Barreto?

Domande, per lo più inevase, raccolte dall’esordio alla regia di lungometraggio di Pippa Bianco, Share, che gonfia il corto omonimo del 2015 vittorioso sulla Croisette: passato per Sundance e Cannes, arriva alla 14esima Festa del Cinema di Roma.

La regista newyorkese cerca di pareggiare forma e sostanza, racconto e storia: entrambi non dicono, non disvelano, sono parziali e frammentari, come la verità, anzi, le possibili verità. Produce A24 per HBO, ma lo scarto dall’abituale coolness della casa di produzione è evidente: Pippa affastella dubbi, omette prove, setaccia indizi, e ci costringe a pensare al nostro rapporto con le immagini, la giustizia, l’arbitrio, e non solo quello libero.

Mandy è vittima, oltre il suo esserlo o meno di abuso: via dalla squadra, via dalla scuola, i genitori che aiutano ma non capiscono, lei che non vuole giustizia, ma solo tirare indietro le lancette. Che ne sa il suo ragazzo? Che ne sa l’amico forse troppo premuroso? E qui lividi sulla schiena?

Torna in mente l’ottimo Afterschool di Antonio Campos (2008), mentre si riscrive il Vangelo: “perduti quelli che pur non avendo visto soffriranno!”.

L’onere della prova tocca a noi spettatori, il voyeurismo chiamata in correità, la condivisione istigazione alla violenza: Mandy può nulla, come la polizia, Mandy può tutto, ma vuole?

Piccolo, pessimista con speranza, spietato fino a prova contraria: sentiremo parlare di Pippa Bianco, e non solo di lei. La violenza non si scherza.