“Ma io perché ho deciso di fare questa cosa qua?” si lamenta, all’inizio di Senza fine, Ornella Vanoni. Ed è la chiave di tutto perché mette in campo i due assi del film: il conflitto con una regista, Elisa Fuksas, che la rincorre, la stana e dunque viene respinta; e la capacità della protagonista di impossessarsi del campo, piegare gli eventi a proprio favore, imporre una visione solo in apparenza subalterna all’anziana svanita e maliziosa e invece complessa com’è sempre stata la sua voce.

D’altronde le canzoni di Vanoni riecheggiano in molti film del cinema italiano, specialmente negli anni Settanta, a sottolineare un rapporto intimo con le irrequietudini, le amarezze, i dubbi, le malinconie di quella stagione (per citarne alcuni: Domani è un altro giorno in La prima notte di quiete, L'appuntamento in Tony Arzenta, Quei giorni insieme a te in Non si sevizia un paperino).

Nel bagliore del suo crepuscolo, Vanoni rivendica diritto di cittadinanza nel cinema e sfugge dalla reiterazione di una biografia ormai di dominio pubblico per sublimarsi via via in personaggio iconico: prima diventando ombra sullo schermo (la sagoma parlante che si staglia sul paravento nello studio medico), poi bagnandosi dunque nelle acque del mito di Ondina (stesso nome del suo cane) per trasformarsi in una sirena senza età.

Ha ragione Fuksas a rimarcare come nell’autonarrazione di Vanoni il passato finisca ammassato in un ricordo dalla cronologia sfuggente, il presente sia stato da vivere appieno e l’idea del futuro riesca a essere più necessità che speranza. Col peso dell’anagrafe e la leggerezza conquistata dopo un lungo apprendistato, Vanoni si immerge nelle acque termali di un grande albergo (siamo a Castrocaro, in uno stabilimento d’epoca fascista) che è già spazio stilizzato e deriva onirica, e qui vi sa articolare il tema di Senza fine: “Un film su di me è reale fino a un certo punto: è una fiaba”. È un gioco, certo, ma anche un modo per toccare l’eternità di quelle figure leggendarie che sopravvivono, appunto, in un tempo liquido e che trascende le contingenze.

Come lo sono le mani celebrate da Gino Paoli e che Vanoni usa con la padronanza del gesto studiata alla scuola di Giorgio Strehler. Da cui il dissing con una regista che prova a domarla ma si ritrova lei stessa domata: c’è stima (Ornella si è convinta dopo aver visto iSola, autoritratto di Fuksas tra malattia e pandemia: “Hai la faccia come le chiappe”, le dice con affetto) ma anche imprevedibilità brusca e sbilenca in un legame in cui si scontrano gigionismo e sicurezze, esperienza e curiosità, udito e tatto.

È anche un film – un po’ programmaticamente – sulla fatica di fare un documentario insieme al soggetto del racconto (le discussioni telefoniche con il produttore Malcom Pagani), ma anche un inaspettato musical interiore in cui il repertorio della nostra interprete più elegante e sofisticata costruisce de facto un’autobiografia (si sentono i classiconi ma anche le meno esposte Dettagli e In questo silenzio).

Manca la tenerezza, a Ornella, e la va a cercare duettando con gli amici-devoti-ammiratori: la tromba di Paolo Fresu che strazia mentre lei canta Io so che ti amerò, Vinicio Capossela che suona mentre lei si dimena e fa le smorfie, Samuele Bersani chiamato “Lucio” come il caro Dalla dopo un romantico ballo in balera. Con un obiettivo: “Eternità/ spalanca le tue braccia/ io sono qua”.