L'idea che la coscienza possa essere trasferita da un terminale a un altro, come un file, sembra avere soppiantato la più "classica" ibridazione uomo-macchina, figlia di un'epoca più pesante e di una fantascienza che, dalla letteratura al cinema, ha regalato tante meravigliose distopie.

Nelle strategie discorsive di chi immagina il domani, il software sostituisce l'hardware cambiando anche il contenuto visuale dello sci-fi, liberandolo cioè dall'onere di configurare design futuribili, scenografie modello Urania e un bizzarro modernariato.

Il fatto che i nuovi film di fantascienza abbiano un look sempre più realistico, dimesso, quotidiano, è a nostro avviso una conseguenza della perfetta mimetizzazione del digitale nel biologico. E una perdita incalcolabile in termini di creatività e fascinazione.

Il salto evolutivo non vuole farsi vedere. Così l'antico sogno della tecnica di sovvertire il mondo, stabilendo nuove gerarchie, può realizzarsi solo nell'occultamento di sé. Un'impresa che nemmeno al più evoluto cyborg di Blade Runner - sotto l'epidermide ancora impastato di fili e materiale metallico - sarebbe riuscita.

Un brodo di cultura in cui sguazzano tanti aspiranti Isaac Asimov 2.0 e che ha prodotto finora un controverso corpus teorico noto come transumanesimo. A differenza delle distopie post-umane, le utopie trans-umane prefigurano una coesistenza pacifica tra uomini e macchine, con quest'ultime che arrecherebbero anzi grandi benefici ai primi grazie allo sviluppo di nanotecnologie curative dei principali mali della nostra specie.

Ma i matrimoni non vengono sempre bene e alcuni film di fantascienza recenti ce lo stanno dicendo. Pensiamo al pessimo Transcendence con Johnny Depp che faceva “trasferire” la propria coscienza dentro un pc per sopravvivere alla morte fisica.

O allo sfiatato Self/less, ultimo excursus in materia.

Nel film un ricchissimo re dell'immobiliare, malato terminale di cancro, si sottopone a una cura segretissima e sperimentale, grazie alla quale la sua mente potrà essere impiantata in un corpo nuovo, più giovane e sano.  Il riccone è convinto che il suo nuovo "involucro" sia stato prodotto in laboratorio. Ma quando il corpo incomincia a fare le bizze, suscitando nella mente del suo ospite ricordi e immagini che appartengono alla vita di qualcun altro, la verità viene a galla: quel corpo appartiene a una persona vera che, in circostanze economicamente disperate, ha deciso di venderlo al mercato della scienza per metterlo a disposizione dei ricchi.  Che è in fondo una metafora crudele di come funzionano realmente le cose a questo mondo. Peccato che il film non la colga - o non voglia coglierla - fino in fondo.

L'operazione diretta da un regista tamarro come Tarsem Singh (The Cell) finisce per mettere in secondo piano tanto le questioni sociali quanto quelle morali (nonostante sia smaccata l'ascendenza faustiana del soggetto) e filosofiche (cos'è vita? La mente? Il corpo? la loro indivisibilità?), per puntare tutto - e male - sull'adrenalina.

In effetti Self/less è un banalissimo action con una premessa interessante. Nel momento in cui il protagonista scopre di essersi impossessato del corpo di qualcun altro decide di far la guerra all'azienda che l'ha truffato, la quale ricambia con ripetuti tentativi di eliminarlo e di insabbiare la cosa. Seguono scazzottate, sparatorie, inseguimenti e quant'altro.  C'è anche il solito tormentone del padre in cerca di redenzione. Tipico American Style.

La sostituzione di Ben Kingsley (il vecchio corpo) con Ryan Reynolds (quello nuovo) elimina poi ogni possibile sfumatura da un plot già in origine scritto coi piedi. Inutile aggiungere che Tarsem Singh ci mette del suo, tagliando con l'accetta il tutto.

Lo status di star di Reynolds non aiuta: se gli altri personaggi vengono trattati come cartonati, è perché il film vorrebbe reggersi interamente su di lui. Che non ha la forza per sostenerlo.