Who gives a fuck about movies?”, esclama la voce profonda e graffiata di Roger Jackson prima che il logo di Scream VI, come di consueto, tagli lo schermo in due. Cinque parole pronunciate con rabbia, come uno sfogo. Forse, quella voce che un tempo ci terrorizzava e a cui abbiamo imparato a voler bene, ci sta dando un avvertimento.

Comincia così Scream VI, dopo una sequenza d’apertura che, col senno di poi, è il momento più sorprendente del film. Quando, poco dopo, ritroviamo Sam e Tara Carpenter, scopriamo che si sono lasciate alle spalle Woodsboro e si sono trasferite a New York insieme ai gemelli Chad e Mindy Meeks. Quel trasferimento è l’occasione per ricominciare dopo gli eventi luttuosi che hanno sconvolto la loro vita un anno prima. Ma presto un nuovo Ghostface farà la sua comparsa, e loro dovranno tornare a fare i conti con il proprio passato.

Prima di tutto, un doveroso coming out: sono legato affettivamente a Scream. Sin da bambino, quando ancora non potevo apprezzare il commento meta-cinematografico che è la benzina della saga (pardon, franchise), ero terribilmente affascinato della maschera di Ghostface. Anche oggi, se mi capita di incrociare un suo cosplayer, difficilmente riesco a resistere alla tentazione di farmici una foto insieme. Non chiederei una foto nemmeno al mio cantante preferito, non sono il tipo, m’imbarazzo. Ma con Ghostface è un’altra cosa: lo vedo e torno bambino.

Scream VI (@Paramount)
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Penso che sia così per gran parte degli amanti della creatura di Craven e Williamson. Ma col tempo, inevitabilmente, ho scoperto che oltre alla maschera iconica e all’intrattenimento semi-serio, Scream era anche altro. Era l’occasione per l’industria di riflettere sulle proprie regole, di commentare un genere, di sventrarlo come i suoi personaggi, mettendolo al pubblico ludibrio.

Sin dall’inizio, due erano gli elementi che - si sapeva - avrebbero garantito un’eterna giovinezza a questi film: il primo era un antagonista che a differenza di altre icone slasher (Freddy, Jason, Michael Myers & co.) non era un’entità fisica, bensì una maschera che chiunque, in una rotazione ipoteticamente infinita, avrebbe potuto indossare; il secondo era l’industria che cambia, il genere che cambia, offrendo a ogni sequel qualcosa di nuovo da analizzare per rivelarne i segreti e, perché no, sovvertirne i canoni. Per non vanificare lo splendido incantesimo, l’unica condizione che Scream doveva rispettare era non diventare esso stesso canone. Ventisette anni, sei film e tre stagioni televisive dopo, finita la visione di Scream VI, sono costretto a mettere da parte il mio affetto e ad accettare che questa condizione è stata tradita.

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Basti pensare a come è trattato l’elemento meta-cinematografico, che torna solo come vezzo di superficie: le regole per sopravvivere in uno slasher, sequel, requel, sequel del requel, sono enunciate pedissequamente, come fosse un dovere da assolvere. Laddove il primo Scream si faceva beffa di esse, il sesto capitolo le elenca con un certo orgoglio, assicurandoci che no, non ha nessuna intenzione di trasgredirle. Ora siamo in un franchise, e la prima regola di un franchise è che tutto deve cambiare per non cambiare assolutamente niente. Il meta-commento è un bizzarro congegno d’altri tempi da tenere nell’equazione solo perché è pittoresco e perché, in fondo, fa parte del suddetto canone. Nel 2023, “Who gives a fuck about movies”: il cuore pulsante di Scream VI è da tutt’altra parte. È nel sangue versato dal Ghostface più violento ma meno letale (e sensuale) del franchise; è nella caccia al tesoro delle reliquie dei film precedenti; è nei “Core Four”, termine coniato da Chad Meeks-Martin (Mason Gooding) per indicare i quattro protagonisti. Nell’epoca in cui tutto deve avere un nome, battezzarli come gruppo è la soluzione perfetta per far dimenticare quanto insipidi siano, se presi singolarmente.

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La colpa è di una scrittura più attenta agli ingredienti che alla cottura, troppo ansiosa di non deludere il fan-base per concedersi qualsivoglia azzardo. La protagonista femminile, tra qualche bacio zuccherino e tante lacrime, è quasi sempre passiva. Melissa Barrera (molto più a suo agio nella New York di In The Heights) è costretta in un personaggio privo di carisma, a cui non è concessa alcuna evoluzione. La sua Sam Carpenter afferma di aver provato piacere a uccidere il fidanzato-killer del precedente capitolo, e questo la tormenta. Ma è un tormento che non ha alcuna ripercussione sulla storia e sul suo personaggio, e si produce solo in un fiume di parole e in qualche coltellata di troppo al cattivone nel finale. Ancora più reazionaria è la rappresentazione della figura maschile. Nei corpi perfetti di Mason Gooding e Jack Champion c’è il riflesso anacronistico dell’estetica teen anni ’90 che, d’altronde, apparteneva anche ai primi due capitoli del franchise. Tuttavia, se nella trilogia originale a controbilanciare c’era il Dewey di David Arquette, soft-boy per eccellenza e meraviglioso contraltare all’indole d’acciaio di Gale Weathers (Courtney Cox), qui l’unico elemento di fragilità maschile sembra affidato a una battuta ironica; “morirò vergine?” si chiede preoccupato l’Ethan Landry di Jack Champion, dimenticandosi che il suo aspetto fisico suggerisce tutt’altro che goffaggine, tutt’altro che fragilità. Insomma, tutto ciò che è nuovo, in Scream VI, è sottile come carta, puzza di teatro, e forse è solo un pretesto per rimettere un coltello nelle mani di Ghostface.

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Alla fine, la sensazione è che il prezzo del biglietto non l’hai pagato per vedere un film. Hai pagato l’ingresso in un museo. E che ti piaccia o no, i nuovi autori, con la benedizione di Williamson, sono stati onesti e te l’hanno detto sin dall’inizio: chi se ne frega dei film? È l’icona che conta, sono le foto dei serial killer defunti appese a una bacheca, le loro maschere consunte, la corda da cui pendeva il cadavere di Casey Becker (Drew Barrymore) o il nastro adesivo che costringeva su una sedia il suo ragazzo, prima che un velocissimo colpo di lama gli aprisse la pancia. È quello il nettare del franchise, ciò che i fan vogliono. E l’industria, dacché un tempo aveva la capacità di prendersi in giro, adesso prende in giro noi e ci trasforma da spettatori in abbonati. Allo stesso modo baratta il cinema con la serialità e, chissà, magari non ha tutti torti. Perché Scream VI si sta rivelando un successo. E anche io, che non l’ho amato affatto, tornerò senz’altro in sala per un eventuale Scream VII. Spererò di amarlo, ma con più probabilità ne rimarrò deluso. Perché quel museo che ha il sapore di casa altro non è, ormai, che un villaggio Potëmkin fatto di cartapesta.