In un momento storico in cui l’idea stessa di confine fonda le azioni dei governi e le idee dei movimenti politici di tutto il mondo, Barbara Sarasola-Day ambienta il suo secondo lungometraggio Sangre blanca tutto attorno a quel limbo geografico, politico e morale che è la frontiera.

In particolare quella tra Argentina e Bolivia, dove Martina ha trasportato, assieme a un compagno, un carico di droga in ovuli ingeriti. Ma quando il ragazzo muore a seguito della rottura di un ovulo, Martina si trova nei guai: l’unica persona che potrebbe aiutarla è il padre. Ma i due si odiano da anni.

Un dramma nerissimo e una storia familiare intrecciati da Sarasola-Day, anche sceneggiatrice, per realizzare una riflessione proprio sui limiti, le soglie e i confini inesplorati delle nostre scelte e possibilità.

 

In Sangre blanca infatti tutto si muove a cavallo di una soglia, tra due poli definiti da una linea sottilissima, a partire dall’ambientazione passando per la definizione dei personaggi e delle loro scelte fino ad arrivare allo stile che attraverso un’impostazione realistica, con la camera a mano stretta sui personaggi che si apre a picchi di intensità che travalicano il realismo per arrivare a suspense e violenza o al contrario ad aperture emotive (la prima telefonata al padre e per contraltare l’ultima).

Lo sguardo di Sarasola-Day si muove tra i registri e riesce a non essere quasi mai di maniera sapendo giostrare tanto la durezza e la tensione dei toni e del racconto quanto l’originalità dei personaggi e dei loro rapporto che introduce un altro racconto di confine, quello legato al rapporto tra i sessi rispetto alle azioni e al genere cinematografico: e in questo la regista è aiutata dall’apporto di due attori che si donano al film anima e corpo, la presenza esplosiva di Eva De Dominici e quella rocciosa e ambigua di Alejandro Awada.

Sangre blanca lavora sul proprio potenziale con abilità e intelligenza, rendendo la sua autrice un nome da tenere d’occhio.