C’è in Ride, lungometraggio d’esordio di Valerio Mastandrea, una messa a fuoco importante, decisiva: l’attuale divaricazione tra libertà individuale e sanzione sociale, significativamente addossata a un’elaborazione del lutto. A Carolina (Chiara Martegiani) è morto sul lavoro il marito, Mauro Secondari: la comunità, sulla costiera laziale (Nettuno), è piccola, per quella fabbrica si son succedute generazioni, tra cui il padre della giovane donna, Cesare (Renato Carpentieri).

Vecchie fidanzate, amici scoppiati, vicine truccatrici, tanta gente le fa visita in quella domenica di maggio che precede il funerale, ma per i canoni sociali qualcosa non va: Chiara non riesce a piangere, s’impegna, si sforza, ma le lacrime non arrivano, proprio no. A una settimana dalla scomparsa sta bene, lo strazio nemmeno si intuisce: no, Chiara ride, e che c’è di male?

La sua storia, questo lutto eterodosso, eretico, insoddisfacente, persino indecente, è intervallata a quella del figlio Bruno (Arturo Marchetti), che sulla terrazza condominiale – surrealmente vi campeggia un pattino di salvataggio… - si prepara, domanda e risposta, con un amichetto alle interviste che certamente dovrà concedere l’indomani, e a quella di Cesare, prima nella casetta sulla spiaggia con due vecchi compagni e poi a tu per tu, un confronto violento, con il figliol prodigo Nicola (Stefano Dionisi).

Il soggetto, trasformato in sceneggiatura dagli stessi Enrico Audenino e Mastandrea, è un ineludibile punto di forza, se non il pregio fondamentale del film: per un personaggio pubblico, per di più attore, per di più attore in procinto di passare alla regia quell’innesco di individuale/sociale e autonomia/omologazione ha ovvi risvolti personali, financo intimi, ma la deflagrazione sullo schermo ha un valore universale, una responsabilità allargata.

Ottima, poi, è la direzione degli attori: Carpentieri si conferma il fuoriclasse che conosciamo, Dionisi un graditissimo ritorno e Martegiani, soprattutto nella prima parte, una scommessa non perduta. Indovinato è anche l’appiglio al genere drammatico, con fughe nella commedia e persino diversioni comiche, assistito da una tavolozza accorta di toni, accenti, sottrazioni.

E’, dunque, un esordio sinceramente apprezzabile, che indica un qui e ora solido e tradisce prospettive importanti, ancor più se Mastandrea dovesse acquisire maggiore fiducia in se stesso e nei propri mezzi, da un lato, e negli spettatori, dall’altro: qui si, e ci, mette un po’ all’angolo, e la bisettrice rivela pleonasmi indebiti (lo spiegone tra madre e figlio), didascalismi ideologici (la lettera di Cesare e non solo), intrusioni fuorvianti (la pistola). E un tot di ingenuità, tanto emendabili quanto perdonabili.

Altra nota, letterale, negativa è la musica, troppa e invasiva come in tanto cinema tricolore, ma Ride sa anche ridere di felicità cinematografica: Dionisi che mangia la pasta che non c'è a uso e consumo di Carolina e, prioritariamente, le sequenze con Carpentieri e gli altri vecchietti impegnati a cucinare le vongole o far volare l’aquilone in spiaggia che ricordano il miglior Kitano contemplativo, e la terza ci sembra davvero essere l’età cinematografica del neoregista. Non per arretratezza né passatismo, ma per ostinata e contraria e, chissà, splendida inattualità. Ecco, un film sui vecchi, un’anagrafe poetica e plastica in cui dispiegare appieno l’eredità di Claudio Caligari, qui già largamente percettibile nella distanza pudica e però partecipe dai soggetti. Perché no?