Il film di Trevor Nunn è tratto dal romanzo di Jennie Rooney, La ragazza del KGB (Piemme Edizioni), a sua volta ispirato all’incredibile storia vera di Melita Norwood, scoperta colpevole di spionaggio contro l’Inghilterra a più di ottant’anni, e per questo chiamata “nonna spia”.

La catena di ispirazioni ha quindi prodotto un film che, con una spolverata leggera di thriller, affonda le radici nel genere romantico e sentimentale.

Il regista divide la narrazione in due linee temporali: il presente, con Judi Dench a interpretare (ottimamente) la parte di Joan Stanley, ultraottantenne strappata alle faccende casalinghe di una pensione serena da agenti dei servizi segreti britannici; e il passato, un 1937 a Cambridge colorato da sfumature idealiste pronte a esplodere col secondo conflitto mondiale, in cui la parte della giovane Joan è affidata a Sophie Cookson.

Quest’ultima dà prova di carattere e grande espressività, risultando più che credibile nel confronto attoriale-temporale con Judi Dench. Peccato che entrambe siano penalizzate da una struttura e una sceneggiatura ingenerose con entrambe.

Il passato, infatti, teatro dei fatidici scambi di documenti, segreti e tradimenti, si rivela poco più che scenario di storie d’amore e sentimenti. Non che queste, di per sé, danneggino il film, ma la protagonista al centro di un intrigo internazionale è appiattita su un ruolo quasi secondario, trascinata nelle proprie azioni e decisioni, invece di intraprenderle col coraggio che meriterebbero.

Tanto più che, osservando in parallelo le confessioni della Joan anziana, sappiamo già come la faccenda andrà a finire, e gli elementi che vengono mantenuti un mistero, oltre a essere piuttosto prevedibili, non sono sufficienti a creare la giusta suspense.

Il ritmo, alternato tra passato e presente senza grande equilibrio, finisce per interrompere più di quanto concateni le due storie, a scapito del pathos, che ne risulta fiaccato. Si percepisce marcatamente sul finale, che tenta di dimostrare come il racconto del presente non fosse mero strumento narrativo. Non ci riesce né risolleva, purtroppo, le sorti della pellicola.