Quattro ragazze in cerca di se stesse. Quattro 20enni normali, che stanno e viaggiano insieme non si sa perché. Amicizia? Forse, ma non è sicuro, di certo non è scontato. Maria Roveran eccelle all’università, dove prepara una tesi sul Paradiso perduto e si fa apprezzare dal prof. Filippo Timi. A casa ha un rapporto non conflittuale, ma forse superficiale con la madre, Margherita Buy, di professione parrucchiera. Le altre tre sono Marta Gastini, in procinto di trasferirsi a Belgrado per un modesto impiego da cameriera; Laura Adriani, un padre padrone (Sergio Rubini), ma apparentemente sicura di sé e financo sprezzante; Caterina Le Caselle, violinista e incinta. Tutte e quattro partono per Belgrado: non succederà nulla, ma accadrà qualcosa, anche e non solo perché una di loro ha un cancro e anziché viaggiare dovrebbe curarsi…

In Concorso a Venezia 73, è Questi giorni, diretto da Giuseppe Piccioni, che ha un merito indubbio: declinare la precarietà in forma amicale.

Appoggiandosi sul teen movie quale genere di riferimento, più che altro per ragioni anagrafiche (dei personaggi), Piccioni non adopera però la drammaturgia e pure la poetica del romanzo di formazione: poco succede, e l’avvio in medias res non subisce, malattia a parte, particolari scossoni.

Sono ragazze di oggi – anche se le connotazioni temporali sono in difetto – e se non i pensieri i legami, palpiti, aneliti, destinazioni paiono deboli, poco profondi, soprattutto poco interessanti: mala tempora currunt o il film ha qualche problema? Al netto dello status quo, la seconda: Questi giorni non riesce mai a interessarci di queste ragazze, a farci sovrapporre il nostro vissuto - o il nostro presente - a quel che vediamo: apatia, abulia, indecisione dalle ragazze, ovvero la storia, contagiano il racconto, palesando un’irresolutezza di fondo dietro la macchina da presa e, ancor prima, in scrittura.

Ci sono parentesi a fuoco, su tutti quella con il giovane prete, ma i cammei – Timi, Rubini – sono incongrui, se non deleteri; le musiche, un mugolio a cappella reiterato, fanno poco e male coro greco; la regia – nel finale al parchetto dell’ospedale la Roveran entra nella sua stessa soggettiva!!! - non brilla per inventiva, ma si adagia su ritmi e giorni, questi giorni, incolori, insapori, vecchi come solo i (non) giovani sanno essere.